Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


martedì 9 aprile 2013

Anemos. Libera Università di Neuroscienze. Illich terzo incontro e conclusioni. Iatrogenesi culturale.


La terza forma di iatrogenesi è quella culturale, essa si presenta quando l'impresa medica estingue la volontà delle persone di soffrire la propria condizione reale. Un sintomo di questo fatto è che la parola sofferenza non è utilizzabile per una condizione umana normale, reale, essa evoca superstizione, sadomasochismo o la compassione del ricco per il povero. La medicina è andata nel tempo offrendo una lotta e una impresa morale che sfrutta lo sviluppo industriale per superare qualsiasi forma di male e di sofferenza. Anche questo atteggiamento mina la capacità degli individui di far fronte alla propria condizione, rende inaccettabile il dolore, le menomazioni, la decadenza e la morte. Avere buona salute per Illich significa non solo far fronte all'ambiente ma anche gioire di questa riuscita. Salute e cultura sono in gran parte la stessa cosa. 

La salute apre la mera esecuzione istintuale. L'aspetto culturale agisce in sintonia con il corpo. Sono in gran parte la stessa cosa. Neanche due facce della stessa medaglia. La forma della salute che ciascuna cultura elabora, l'atteggiamento che ha verso il dolore, le menomazioni, la morte, è legata alle diverse interpretazioni che l'uomo dà alle proprie sofferenze. Pertanto il copione che ciascuna persona dà della propria salute, secondo Illich, è il risultato di una interpretazione sociale. Tutte le culture tradizionali dotano gli individui di strumenti adatti a superare il dolore. In queste culture la salute si cura con programmi che indicano cosa mangiare, bere, come lavorare, respirare, far l'amore, far politica, far ginnastica, cantare, sognare, far la guerra, soffrire. La cura maggiore consiste nel consolare, assistere e confortare il prossimo. Si attende che ritorni alla salute, è perciò la maggior cura una forma di tolleranza della sofferenza altrui. L'ideologia diffusa della medicina cosmopolita va in senso contrario. Questa sradica i codici culturali tradizionali e impedisce l'elaborazione di nuovi contenuti che consentano l'autoconservazione e l'elaborazione della sofferenza. Chiusa la possibilità di una pratica personale, non rimane che seguire i programmi burocratici, questi, tramite le istruzioni emanate dai custodi sanitari, indicano come non sia necessario soffrire dolore, malattia e morte. L'impresa medica ha l'obiettivo di sostituirsi alle capacità personali con cui gli individui affrontavano la difficoltà. L'obiettivo della civiltà medica è di evitare il dolore, eliminare la malattia e annullare il bisogno di una arte della sofferenza e della morte. L'appiattimento della prestazione personale virtuosa è la conseguenza del nuovo anatema lanciato dall'industria sanitaria contro il dolore e la morte. La tecnocrazia libera gli individui di questo fardello tramite le istituzioni sanitarie. Così questo obiettivo della medicina metropolitana è imposto contro ogni programma culturale che incontra nella sua progressiva colonizzazione. L'esperienza del dolore differisce nelle diverse civiltà storiche. La sensazione dolorosa si trasforma in una esperienza individuale che è la sofferenza. Ora il passaggio che tenta la medicina è di trasformare questa esperienza in un problema tecnico. In questo modo l'individuo non accetta più di soffrire, di fronte al malessere sente di avere diritto ad un riguardo. Nelle culture tradizionali la sfida alla sofferenza è questione personale, nella medicina cosmopolita invece la richiesta è rivolta all'economia estraendola dal quadro esistenziale. La cultura è un sistema di significati, la civiltà cosmopolita è un sistema di tecniche. Così la salute da valore d'uso diviene valore monetario, cioè merce. Questo modo di vedere le cose Illich lo mutua direttamente da Marx. Indica questo passaggio ciò che Marx definisce alienazione. Siamo in questo caso alienati della capacità di curarci da soli. Ciò comporta una condizione del dolore completamente diversa. Prima questo era inserito in un contesto carico di senso. Ora invece è solo da eliminare. Solo un dolore che si considera rimediabile non si può sopportare. Questa è la nuova condizione. Cultura tradizionale e civiltà tecnologica viaggiano in direzioni opposte.

'Il dolore patito dagli individui aveva l'effetto di stabilire un limite all'abuso dell'uomo da parte dell'uomo. Le minoranze sfruttatrici potevano vendere alcol o predicare religioni per intontire le vittime, e gli schiavi potevano dedicarsi al blues o a masticare coca; ma al di là di un punto critico di sfruttamento, le economie tradizionali fondate sulle risorse del corpo umano non potevano più reggersi. Qualunque società che infliggesse disagi e dolori tanto intensi da divenire culturalmente 'insoffribili', non poteva che finire. Oggi una parte crescente dell'intera massa di dolori è prodotta dall'uomo, è un effetto collaterale delle strategie con cui si persegue l'espansione industriale. Il dolore non è più sentito come un male 'naturale' o 'metafisico': è una maledizione sociale, e per impedire che le 'masse' maledicano la società quando sono colpite dal dolore, il sistema industriale elargisce loro una medicina che lo sopprime. Il dolore si traduce così in accresciuta domanda di farmaci, ospedali, servizi medici e altre forme di cura professionalizzata e impersonale, nonché in sostegno politico a un'ulteriore crescita dell'istituzione medica, senza riguardo per il suo costo umano, sociale o economico. Il dolore è cioè diventato un problema di economia politica, il che scatena un processo a valanga: tramutato in consumatore di anesttesia, l'individuo non può che chiedere sempre maggiori dosi di prodotti e servizi che gli procurino artificialmente insensibilità, stordimento, incoscienza.' (Ivan Illich, Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)

La distopia della civiltà occidentale vede nel dolore solo un fattore accidentale del sistema socioeconomico da superare con interventi straordinari. La sensazione del dolore è determinata da messaggi che giungono al cervello. L'esperienza che ne deriva è legata al corredo genetico e da alcuni fattori funzionali, oltre che dalla natura e intensità dello stimolo: cultura, ansia, attenzione, interpretazione. Tutti questi fattori sono modellati da determinanti sociali: ideologia, struttura economica, carattere della società. Ad esempio, è un fattore culturale che stabilisce chi deve gemere quando nasce un bambino: il padre, la madre, tutti e due insieme. Sono quindi il risultato di questo addestramento e delle convinzioni conseguenti che determinano il grado di dolore sopportabile. Sono spesso rimedi superstiziosi che inducono un sollievo magicamente maggiore che nella religione colta. Di fronte alla medicalizzazione tutte le determinanti sociali vengono distorte. Per la cultura il dolore è un disvalore, mentre per la medicina è una reazione organica, sistemica, che si può misurare, regolare e controllare. C'è una obiettivazione per cui il dolore diventa oggetto di controllo. Naturalmente sono i medici a decidere quali sono i dolori autentici, quali immaginati e quali simulati. La compassione così va a farsi friggere e chi soffre trova intorno a sé un contesto in cui non c'è comprensione dello stato di oppressione avvertito, così il senso dell'esperienza viene meno. L'elaborazione del dolore è un fattore culturale, ma l'esperienza in sé è assolutamente personale. La compassione che proviamo per chi sta male è determinata proprio dal fatto che siamo consapevoli che il suo dolore riguarda specificatamente solo lui, gli altri possono solo immaginarlo. Se un medico obbiettiva il dolore reificandolo, il senso che abbiamo indicato viene meno. Viene meno proprio l'unicità di chi esperisce tale condizione dolorosa. I medici d'altronde hanno studiato come manipolare il dolore unico che ciascuno prova in modo esterno e standardizzato; si interessano ad una indagine sistemica, cioè organica, che è l'unico modo oggettuale aperto alla verifica operativa. Così il risvolto personale sfugge a questa indagine operativa. Il controllo sperimentale ignora l'aspetto unico che costituisce il paziente reale che ha davanti a sé. Di solito le proprietà analgesiche di un prodotto sono sperimentate sugli animali, pensate un poco voi come, poi se ne verifica la validità sulle persone. A volte anche queste ultime sono usate come cavie da laboratorio. In tali casi gli effetti tra cavie e uomo è simile. Ma appena si usano i farmaci in chi soffre veramente gli effetti cambiano confronto alla situazione sperimentale. In laboratorio le persone sono come i topi, fuori no. Il limite estremo di questa esperienza è costituita dalle persone lobotomizzate, queste sentono il dolore solo come disagio perché hanno perso la capacità di soffrirne. Il risultato è che l'ipertrofia dell'intervento tecnico ha sostituito tutte le altre dimensioni culturali che contribuivano ad arginare l'esperienza del dolore: parole, droghe, miti e modelli. Le parole da dire, le sostanze da prendere, le narrazioni da ricordare e gli esempi da seguire sono drasticamente sostituiti dal nuovo mito, dalla nuova narrazione, dalle nuove sostanze, tutte rigorosamente determinate dal monopolio medico. Questa concezione, secondo Illich, ha un prerequisito filosofico che ha cambiato la mentalità dell'uomo moderno. Data da Cartesio questa nuova percezione e si basa sulla divisione tra res cogitans e res extensa. Situa da allora il momento in cui il dolore inizia a perdere la sua dimensione personale diventando il segnale di qualcosa che non funziona. E' così che il corpo difende la sua integrità meccanica per Cartesio. L'anima ormai viene concepita in maniera separata dal corpo. Leibniz prosegue in questa indicazione del suo maestro quando dice:

'"Il grande ingegnere dell'universo ha fatto l'uomo nel modo più perfetto possibile, e per la sua conservazione non ha potuto inventare dispositivo migliore che fornirlo d'un senso del dolore". Istruttivo il commento che Leibniz dedica a questa frase. Comincia dicendo che in linea di principio sarebbe stato ancora meglio se Dio avesse usato un rinforzo positivo anziché negativo, ispirando piacere ogni volta che un uomo si scosta dal fuoco che potrebbe divorarlo; però conclude, Dio avrebbe potuto riuscire su questa via solo operando miracoli, e poiché per principio Dio evita i miracoli, il dolore è un espediente necessario e brillante per garantire il funzionamento dell'uomo.' (Ivan Illich, Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)
Insomma, in breve tempo il dolore diventa utile a capire i problemi del corpo. Un regolatore delle funzioni corporee. Una spia delle avarie. Non c'era più bisogno di spiegazioni metafisiche, cioè realistiche, ma razionali. Perso ormai qualsiasi aspetto mistico il dolore può essere studiato empiricamente allo scopo di eliminarlo. Questa la nuova sensibilità con cui si presentava l'epoca moderna. Il progresso era l'eliminazione sistematica di quanto più dolore possibile. La politica veniva concepita non tanto come ricerca della felicità ma come riduzione del dolore. Il risultato è che il dolore colpirà solo alcuni poveretti per cui la borsa degli strumenti medici non viene usata. Piuttosto che fronteggiarlo ormai il dolore va sfuggito a qualsiasi prezzo. Anche a costo di perdere l'indipendenza. Man mano che l'analgesico diffonde i suoi effetti meno si apprezzano le gioie e i piaceri semplici della vita, una società anestetizzata non sa più coglierli, gli stimoli devono essere sempre più forti. Più rumore, velocità, veemenza, per distruttive che siano. Il passo che seguirà a questa nuova impostazione estesa, cioè geometrica, del corpo è la contemporanea individuazione dei metodi statistici. Questi indicheranno gli standard che per il corpo significano salute o malattia. Chi è sotto certi standard è un potenziale malato. Tutto ciò che non corrisponde alla norma clinica è dunque da rimettere in squadra. Norma in latino significa squadra. Normal in inglese significa che fa un angolo di 90 gradi, cioè retto. Questo è ciò che dichiariamo normale. Ora, non solo le cose ma anche le persone cadono in questa definizione. La geometria si socializza. Fu Auguste Comte a dargli la sua odierna connotazione medica. Una volta conosciuto lo stato normale dell'organismo allora si potrà cominciare uno studio della patologia comparata. Norme e standard alla fine dell'Ottocento diventano criteri fondamentali per la diagnosi e la terapia medica. La deviazione non era considerata di per sé malattia ma il motivo che legittima l'intervento medico. In questo modo si diffonde la misurazione clinica. La società diviene una clinica. Tutti i cittadini sono dei pazienti che devono essere sorvegliati continuamente perché i loro parametri rientrino nella norma. In questo quadro è evidente che il processo di cui stiamo parlando è più legato alla epistemologia che non alla fisica. Foucault dice che se uno scienziato crede che la luna gira intorno alla terra e un altro il contrario, non è interessato a ciò che effettivamente è vero, è interessato solo ai loro discorsi. Illich si muove con lo stesso metodo. Vediamo in questa affermazione un elemento fondamentale per comprendere la filosofia. Il pensiero non segue la verità, come invece fa la conoscenza, segue il senso. Non è che la verità garantisca di più. Pensate ai malati psichiatrici che per essere liberati dalla follia nell'Ottocento venivano purgati per mesi. Questo concetto, differenza tra pensiero e conoscenza, è  sviluppato magistralmente dalla Arendt, spero di poterlo riprendere in altre occasioni. Comunque, è epistemologicamente che si definiscono le malattie e le loro cure. Per questo Illich ritiene che la malattia si può considerare come la materializzazione di un mito politicamente conveniente. Perché in questo modo anziché incidere sui problemi reali per cui si sta male, la condizione inumana in cui viviamo, dei professionisti invece di accusare i loro colleghi di essere la causa che provoca quelle condizioni, ci dichiarano malati coprendo il vero stato delle cose, ci curano e moltiplicano le opportunità di lavoro per i colleghi dell'industria. Se il corpo si ribella alle richieste della società industriale il medico lo dichiara malato. Il male che la società produce così ha un nome.

'In ogni società la classificazione della malattia (nosologia) rispecchia l'organizzazione sociale. Il male che la società produce viene battezzato dal dottore con nomi che sono molto cari ai burocrati. La 'incapacità di apprendimento', la 'ipercinesia' o la 'disfunzione cerebrale minima' spiega ai genitori perché i loro bambini non imparano, servendo da alibi all'intolleranza o all'incompetenza della scuola; la pressione alta serve da alibi per lo stress che aumenta, la malattia degenerativa per l'organizzazione sociale che produce degenerazione. Più la diagnosi è persuasiva, più appare preziosa la terapia, più è facile convincere le persone che esse hanno bisogno una dell'altra, e meno è probabile che esse si rivoltino contro la crescita industriale... Prima che la malattia fosse considerata essenzialmente una anomalia organica o del comportamento, chi si ammalava poteva ancora trovare negli occhi del medico un riflesso della propria angoscia e un qualche riconoscimento dell'unicità della sua sofferenza. Oggi, ciò che vi trova è lo sguardo fisso di un contabile di biologia assorto in un calcolo costi/ricavi. Il suo malessere gli viene sottratto per diventare materia prima di un'impresa istituzionale. La sua condizione è interpretata secondo una serie di regole astratte in una lingua che lui non può comprendere. Gli si insegna che esistono certe entità ostili che la medicina combatte, ma dicendogli solo quel tanto che i dottore ritiene necessario per ottenere la collaborazione del paziente. Il linguaggio diventa proprietà esclusiva del medico; il malato rimane privo di parole significative con cui esprimere la sua angoscia che viene così ulteriormente aggravata dalla mistificazione linguistica... Non appena l'efficacia della medicina venga valutata in linguaggio corrente, si vede subito che la maggior parte delle diagnosi e delle cure efficaci, non va oltre il livello di comprensione raggiungibile da qualunque profano. Infatti gli interventi diagnostici e terapeutici che statisticamente risultano più utili che dannosi presentano nella stragrande maggioranza, due caratteristiche: richiedono mezzi materiali estremamente economici, e possono essere dosati e predisposti per l'uso personale diretto o per l'impiego nell'ambito della famiglia.' (Ivan Illich, Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)

Insomma, un uso più austero della tecnologia metterebbe in grado tutti di curarsi nella maggior parte dei casi da soli. Ma non è l'efficacia dell'intervento ciò che interessa la medicina, la sua regola è invece andare più possibile incontro alle esigenze di un consumatore per il quale domina la mitologia dell'efficienza medica.

Conclusioni.

'La Rivoluzione francese dette origine a due grandi miti: uno, che i medici potevano surrogare il clero; l'altro, che grazie al cambiamento politico la società avrebbe riacquistato la sua salute originaria. (1) La malattia divenne una questione pubblica.
In nome del progresso, cessava d'essere un fatto che riguardava il malato. (2) Nel 1792, per parecchi mesi, l'Assemblea nazionale di Parigi discusse come sostituire i medici che traevano lucro dalla cura dei malati con una burocrazia terapeutica incaricata di amministrare un male che era destinato a scomparire con l'avvento della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità.
Il nuovo clero sarebbe stato mantenuto con i beni confiscati alla Chiesa.
Esso doveva convertire la nazione a un modo di vita sano che rendesse meno necessarie le cure mediche.
Ogni famiglia doveva riacquistare la capacità di assistere i propri membri e ogni villaggio di provvedere agli ammalati privi di parenti.
Un servizio sanitario nazionale avrebbe avuto il compito di sovrintendere alla salute e di promuovere leggi dietetiche e regolamenti che obbligassero i cittadini a utilizzare le conquistate libertà in direzione d'una vita frugale e di piaceri sani.
Ufficiali sanitari avrebbero vigilato sull'osservanza di tali norme da parte dei cittadini, e appositi tribunali di sanità presieduti da magistrati-medici avrebbero perseguito i ciarlatani e i profittatori.' (Ivan Illich, Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)

Rousseau aveva teorizzato che lo stato di natura valeva anche per le malattie, si trattava perciò di restaurare la malattia selvaggia, che si limita da sé, che si deve curare nelle case stesse, perché allorché lo sfruttamento spezza la famiglia la malattia diventa maligna e degradante. Questo è il risultato dell'incivilimento e dell'urbanesimo. Le malattie che si vedono negli ospedali sono il risultato, secondo i seguaci di Rousseau, delle forme di ingiustizia sociale, conseguenza degli egoismi che provocano la miseria nella popolazione. La medicina diventa così problema politico. Con la Restaurazione il compito di debellare la malattia viene dato ai medici. Dopo il Congresso di Vienna, tutti gli stati europei si ritrovano per restaurare l'ancien regime, gli ospedali si moltiplicarono, le scuole di medicina videro un grande sviluppo. Gli ospitali, che erano stati inventati per ospitare pellegrini, poveri, diseredati, malati, folli, rappresentavano l'ultima stazione del pellegrinaggio verso la morte. Chi non aveva possibilità di sopravvivere si rivolgeva come estrema ratio a queste istituzioni. Dunque erano da schivare il più possibile. All'interno le spese per le medicine rappresentavano solo il 3% del magro bilancio di questi luoghi, che di solito erano gestiti da suore o da ordini religiosi. I medici  iniziarono ad affacciarsi nei luoghi di accoglienza e a curare i bisognosi. Presto si accorsero che le patologie presenti in gran numero ne facevano il luogo ideale per classificare le malattie e per sperimentare le loro terapie. Fatto è che il nuovo modo di percepire il medico come taumaturgo e salvatore, secondo Illich, era conseguenza non dell'efficacia delle nuove terapie ma di una richiesta rituale e magica che dava credibilità al disegno nel quale la rivoluzione politica aveva fallito. La malattia e la salute per accampare diritti sulle risorse dovevano essere tradotti da concetti generali in termini operativi. Le malattie si dovevano inquadrare in modo oggettivo. Prima i medici generici conoscevano un paio di malattie, il vaiolo e la peste. Dopo la metà dell'Ottocento chiunque era in grado di descrivere in termini medici almeno una dozzina di patologie. I disturbi erano diventati malattie oggettive che infestavano l'umanità. Si potevano trapiantare e coltivare in laboratorio, venivano sistemate in cliniche, bilanci, archivi e musei. Si poteva gestire amministrativamente la salute e la malattia. Un ramo della élite fu incaricato dalla classe dominante di provvedere alla vigilanza e alla eliminazione della malattia. La divisione cartesiana tra res cogitans e res extensa portò alla concezione meccanicistica del corpo. Il dolore da allora è concepito come il segnale di qualcosa che non va sotto il profilo fisico. La pratica medica diventa così ospedaliera e clinica. Le malattie identificate sono inventariate. Con il contemporaneo sviluppo dei metodi statistici la salute ha uno status clinico, è assenza di sintomi clinici. Questo è lo standard clinico della normalità.

'Una quantità di incisioni provenienti da biblioteche di medici della fine dell'Ottocento mostra il dottore che lotta al capezzale del paziente contro malattie personificate.
La speranza del medico di riuscire a controllare il decorso di specifiche malattie ha fatto nascere il mito di una sua potestà sulla morte. I nuovi poteri attribuiti alla professione hanno dato origine al nuovo status del clinico. (46) Mentre il medico di città diventava un clinico, quello di campagna diveniva dapprima sedentario e poi membro della élite locale. Al tempo della Rivoluzione apparteneva ancora alla categoria degli ambulanti. Dopo le guerre napoleoniche, i chirurghi dell'esercito messi in congedo tornarono a casa ricchi d'una vasta esperienza e bisognosi di sistemazione.
Formatisi sui campi di battaglia, questi ex militari non tardarono a diventare i primi guaritori a residenza stabile, in Francia, in Italia e in Germania.
La gente semplice non si fidava completamente dei loro sistemi e i borghesi rispettabili erano urtati dalla grossolanità dei loro modi, ma clientela tuttavia non ne mancava, data la fama di cui godevano tra i reduci delle guerre napoleoniche.
Mandavano i figli alle nuove facoltà di medicina che si aprivano allora in molte città, e questi al loro ritorno crearono la figura del medico di campagna, che sarebbe rimasta immutata fino alla seconda guerra mondiale.
Il ruolo di medico di famiglia presso una borghesia largamente fornita di mezzi garantiva loro un reddito regolare. Alcuni ricchi di città o di provincia per ragioni di prestigio preferivano farsi curare da clinici famosi, ma una concorrenza assai più preoccupante per il medico di provincia, nel primo Ottocento, era ancora quella dei praticoni d'un tempo, la levatrice, il cavadenti, il veterinario, il barbiere, e talvolta anche l'infermiera pubblica. Intorno alla metà del secolo, malgrado la novità del suo ruolo e le resistenze che incontrava sia in alto sia in basso, il medico di campagna europeo era ormai entrato a far parte della borghesia. Guadagnava abbastanza facendo il lacché al signorotto locale, era amico di famiglia degli altri notabili, ogni tanto andava a visitare i malati d'umile condizione, e indirizzava i casi complicati al suo collega clinico di città.' (Ivan Illich, Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)

La morte naturale diventa il nuovo imperativo medico. Tale condizione viene richiesta anche sindacalmente come diritto di tutti. La morte naturale è priva di causa. Bisogna esaurirsi naturalmente ancora seduti sulla poltrona di comando. L'idea della morte naturale si incrocia con quella di progresso sociale. Un dizionario recita: la morte naturale interviene senza essere preceduta da malattia, senza una causa specifica definibile. La morte anormale è l'opposto di quella naturale in quanto è conseguenza di malattia, di una violenza o di disturbi meccanici e cronici. Si diffonde così la contraddizione borghese anche sindacalmente con la richiesta al diritto di tutti alla morte naturale. Così si estende anche agli operai la richiesta di servizi sanitari anziché liberarsi dai mali del lavoro industriale. Questo ideale clinico è l'opposto di quanto aveva richiesto l'Assemblea nazionale del 1792. Questa nuova immagine della morte richiede nuovi livelli di controllo sociale. La società è responsabile di impedire la morte di ciascun suo membro. L'intervento terapeutico diventa un dovere. Qualunque decesso avvenga senza medico può interessare la giustizia. Incontrare un medico ormai è ineluttabile. Una donna, racconta Illich, tenta il suicidio, si spara alla colonna vertebrale e in coma viene portata in ospedale. Eroicamente il medico la guarisce, è completamente paralizzata ma il chirurgo così non ha da temere che ritenti il suicidio. La nostra nuova morte è correlata al nuovo ethos industriale. La buona morte è quella del consumatore di cure mediche. Come all'inizio del secolo l'uomo fu definito un alunno che aveva bisogno di otto anni di scuola prima di entrare nella vita produttiva, così il nuovo nato è immediatamente reso un paziente bisognoso di ogni specie di terapie. Consumo d'istruzione è il metodo per attenuare la preoccupazione intorno al lavoro, il consumo di medicine lo è per ovviare all'insalubrità delle condizioni di lavoro, alla sporcizia delle città e al logorio dei trasporti. Non ci si deve preoccupare se l'ambiente è sempre più velenoso, ci sono le cure adatte.

'Fino all'Ottocento è sempre la morte che conduce il gioco rispetto al medico o al malato.
I due contendenti stanno ai due capi del letto su cui giace il paziente.
Soltanto dopo che la malattia clinica e la morte clinica hanno avuto un notevole sviluppo troviamo le prime immagini in cui l'iniziativa appartiene al medico, che si frappone tra il paziente e la morte.' (Ivan Illich, Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)

Si può superare la iatrogenesi solo se si comprende che è il risultato del rovinoso dominio della società industriale. E' il risultato della controproduttività che va emergendo in ogni sfera industriale.
Al pari dell'accelerazione che fa perder tempo, dell'istruzione che istupidisce, della difesa militare che si autodistrugge, dell'informazione che disorienta, dei piani urbanistici che creano disordine, la medicina patogena è il risultato di una sovrapposizione industriale che paralizza l'azione autonoma. E' necessario distinguere però la controproduttività da altri due fenomeni con i quali si confonde facilmente. Cioè l'utilità marginale decrescente e l'esternalità negativa. Bisogna distinguere la controproduttività dalla crescita dei prezzi e dai costi sociali opprimenti. Altrimenti la sua azione sarà valutabile solo come costi ricavi. Ogni tecnologia dovrebbe essere valutata all'interno di questa griglia e non solo con quella dei costi e ricavi. I costi diretti rispecchiano gli oneri della rendita, le spese dei materiali, e altre remunerazioni. Il costo di produzione di 1 km passeggero indicano le spese sostenute per produrre e mantenere in funzione veicolo e strada, più il profitto di chi detiene il controllo del trasporto e dei mezzi di produzione, oltre ai diritti pretesi dai burocrati, coloro che monopolizzano il capitale delle conoscenze utilizzate nel corso dell'operazione. Le varie rendite formano il prezzo sia se è pagato direttamente dal consumatore o dall'ente pubblico. I costi sociali non compresi nel costo monetario sono le esternalità negative. Sono le privazioni, i danni, le scomodità, che impone agli altri ogni km che percorriamo su un  mezzo. La sporcizia, il rumore e la bruttezza che ogni auto apporta. La degradazione dell'ambiente, l'inquinamento, l'ossigeno che brucia, le spese delle forze di polizia,e la discriminazione dei più poveri, sono tutti elementi che non fanno parte del calcolo. Alcune si potrebbero rendere interne e calcolare. Ma se tutte le esternalità fossero calcolate il prezzo salirebbe al punto che discriminerebbe la maggior parte degli utenti. Sarebbe un privilegio assoluto. Al di là di un certo grado di intensità le esternalità non si possono caricare sui costi ma solo spostare. La controproduttività è diversa sia sotto il profilo sociale che individuale. Si verifica ogni volta che una istituzione toglie alla società proprio quelle cose che doveva fornire. E' una frustrazione incorporata. Il prezzo è quanto ciascuno è disposto a spendere per quel servizio, le esternalità sono quanto la società deve tollerare per quel consumo, la controproduttività indica il grado di dissonanza cognitiva derivante dall'operazione. Indicatore sociale del funzionamento contro intenzionale di un settore economico. Insomma, crediamo che le cose vadano in un certo modo mentre vanno in senso opposto.

'L'intensità iatrogena dell'impresa medica contemporanea è solo un esempio particolarmente doloroso delle frustrazioni generate dalla sovrapproduzione, le quali si manifestano, in eguale misura, sotto forma di accelerazione del traffico che si risolve in perdita di tempo; di staticità nelle comunicazioni; di addestramento a una perfetta incompetenza nell'istruzione; di sradicamento come risultato dello sviluppo urbanistico; di supernutrizione distruttiva.
Questa controproduttività specifica è un effetto collaterale indesiderato della produzione industriale, che non si può scaricare all'esterno del particolare settore economico che lo produce.
Fondamentalmente essa non è dovuta né a errori tecnici né a sfruttamento di classe bensì alla distruzione, provocata dal regime industriale, delle condizioni ambientali, sociali e psicologiche che sono necessarie per lo sviluppo dei valori d'uso non-industriali e nonprofessionali.
La controproduttività è il risultato di una paralisi delle capacità pratiche autonome, indotta dal modo di vita industriale. La distorsione industriale del nostro comune senso della realtà ci ha reso ciechi al grado di contraddittorietà raggiunto dall'impresa contemporanea.
Viviamo in un'epoca in cui l'apprendere è pianificato, l'abitare standardizzato, lo spostamento motorizzato, la comunicazione programmata, e in cui per la prima volta nella storia dell'umanità gran parte delle derrate alimentari che si consumano proviene da mercati lontani.
In una società così intensamente industrializzata, la gente è condizionata a RICEVERE le cose anziché FARLE; è educata ad apprezzare ciò che si può comprare e non ciò che essa stessa può creare. Vuol essere istruita, trasportata, curata, guidata, anziché apprendere, muoversi, guarire, trovare la propria strada. Si assegnano funzioni personali a istituzioni impersonali.
L'azione di guarire non è più considerata compito del malato.
Dapprima diventa la mansione di singoli riparatori del corpo, e poi subito da prestazione personale si trasforma nell'"output" di un ente anonimo, Nel corso del processo, la società viene riordinata in funzione del sistema d'assistenza e diventa sempre più difficile per la persona provvedere alla propria salute. Beni e servizi ingombrano i campi della libertà.
Le scuole producono istruzione, i veicoli a motore locomozione, e la medicina produce assistenza.
Questi "outputs" sono articoli che hanno tutte le caratteristiche di merci.
I loro costi di produzione si possono aggiungere o sottrarre al prodotto nazionale lordo, la loro scarsità si può misurare in termini di valore marginale e se ne può stabilire il prezzo in equivalenti monetari. Per la loro stessa natura questi prodotti creano un mercato.
Come l'istruzione scolastica e il trasporto motorizzato, la cura medica è il risultato di una produzione di merci ad alta intensità di capitale; i servizi prodotti sono fatti per altri, non con altri né per chi li produce. A causa della nostra visione del mondo ormai industrializzata, spesso si trascura che ognuna di queste merci continua a essere in concorrenza con un valore d'uso non commerciabile che gli individui producono liberamente, ciascuno per proprio conto.
L'essere umano impara osservando e facendo, si muove sulle proprie gambe, guarisce, si prende cura della propria salute e contribuisce alla buona salute degli altri.
Tutte queste attività hanno dei valori d'uso che non sono alienabili su un mercato.
L'apprendimento dotato di valore, il movimento corporeo, l'azione di guarire, per la maggior parte non figurano nel prodotto nazionale lordo.
La gente impara la lingua materna, si muove, fa figli e li alleva, recupera l'uso di ossa rotte, prepara il cibo locale, e fa queste cose con maggiore o minore competenza e piacere.
Queste sono tutte attività ricche di valore che il più delle volte non si fanno né possono essere fatte per denaro, ma che possono essere svalorizzate se c'è troppo denaro in giro.' (Ivan Illich, Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)

L'efficacia di ciascun prodotto industriale è allora nel rapporto tra produzione di merci da parte della società e la produzione autonoma di valore d'uso corrispondenti. Ci deve essere un equilibrio tra prodotti venduti sul mercato e l'azione spontanea e inalienabile degli individui.

Se la maggior parte delle esigenze è risolta con la creatività personale la gente è soddisfatta, lo scarto tra aspettativa e gratificazione tende a essere esiguo e perciò stabile. L'economia di sussistenza rende possibile questo equilibrio. Se a questa condizione integrassimo gli outputs industriali prodotti al di fuori del controllo diretto della comunità, questo sarebbe il modo ideale per rendere  l'attività autonoma più efficace. Ma se questo equilibrio si sposta tutto a favore dell'industria, allora il rapporto tra un modo di produzione autonomo e eteronomo diventa negativo. Gli individui sono educati a consumare anziché agire, si restringe il loro raggio d'azione, diminuisce la loro libertà. Lo strumento divide il lavoratore dal suo lavoro. Chi andava in bici è espulso dalle macchine in gran quantità. Il paziente che si cura da solo trova che i rimedi sono inaccessibili senza ricetta medica. I due modi di produrre autonomo e eteronomo si possono aiutare o ostacolare a vicenda.


'L'efficacia delle cure dipende dalla misura in cui il dolore e la

disfunzione sono resi tollerabili ed è favorita la ripresa. La 

soddisfazione efficace di questi bisogni va nettamente distinta 

dall'efficienza con cui si fabbricano e si mettono sul mercato i 

prodotti industriali, come dalla somma dei titoli di studio, dei 

chilometri/passeggero, delle unità abitative o delle prestazioni 

sanitarie effettuate.

Al di là di una certa soglia, questi "outputs" diventano tutti 

necessari unicamente come rimedi; prendono il posto di attività 

personali rimaste paralizzate da precedenti "outputs" industriali.

I criteri sociali idonei a stabilire l'efficace soddisfazione dei bisogni 

non hanno nulla a che fare con gli strumenti di misura che si usano 

per valutare la produzione e la distribuzione dei beni industriali.

Poiché la misurazione quantitativa non registra la parte svolta dal 

modo autonomo nella realizzazione dei maggiori obiettivi sociali, 


non può indicare se la loro efficacia complessiva sta aumentando o 

diminuendo. Il numero dei laureati, per esempio, potrebbe essere 

inversamente proporzionale alla competenza generale. Ancora 

meno la misurazione tecnica può indicare chi trae beneficio dalla 

crescita industriale e chi ci scapita, quali sono i pochi che ottengono 

di più e possono fare di più, e quali invece ricadono nella 

maggioranza che paga il suo limitatissimo accesso ai beni industriali 

con la perdita della possibilità di agire autonomamente.

Solo il giudizio politico può fare il bilancio. Le persone più colpite 

dall'istituzionalizzazione controproducente non sono, di solito, 

quelle più povere in termini monetari.

Le tipiche vittime della spersonalizzazione dei valori sono coloro 

che si trovano senza potere in un ambiente che è fatto per i 

locupletati dall'industria. Tra questi impotenti ci possono essere 

delle persone che nella loro cerchia sociale sono relativamente 

benestanti, oppure gli ospiti delle istituzioni totali benigne. La 

dipendenza inabilitante li riduce allo stato di povertà che è proprio 

dell'era moderna. Le politiche intese a porre rimedio a questo nuovo 

senso di privazione non soltanto sono vane ma aggravano il danno: 

promettendo maggiori beni di consumo invece di proteggere 

l'autonomia, intensificano la dipendenza inabilitante.' (Ivan Illich, 

Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)



Franco Insalaco




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