La
terza forma di iatrogenesi è quella culturale, essa si presenta
quando l'impresa medica estingue la volontà delle persone di
soffrire la propria condizione reale. Un sintomo di questo fatto è
che la parola sofferenza non è utilizzabile per una condizione umana
normale, reale, essa evoca superstizione, sadomasochismo o la
compassione del ricco per il povero. La medicina è andata nel tempo
offrendo una lotta e una impresa morale che sfrutta lo sviluppo
industriale per superare qualsiasi forma di male e di sofferenza.
Anche questo atteggiamento mina la capacità degli individui di far
fronte alla propria condizione, rende
inaccettabile il dolore, le menomazioni, la decadenza e la morte.
Avere buona salute per Illich significa non solo far fronte
all'ambiente ma anche gioire di questa riuscita. Salute e cultura
sono in gran parte la stessa cosa.
La salute apre la mera esecuzione
istintuale. L'aspetto culturale agisce in sintonia con il corpo. Sono
in gran parte la stessa cosa. Neanche due facce della stessa
medaglia. La forma della salute che ciascuna cultura elabora,
l'atteggiamento che ha verso il dolore, le menomazioni, la morte, è
legata alle diverse interpretazioni che l'uomo dà alle proprie
sofferenze. Pertanto il copione che ciascuna persona dà della
propria salute, secondo Illich, è il risultato di una
interpretazione sociale. Tutte le culture tradizionali dotano gli
individui di strumenti adatti a superare il dolore. In queste culture
la salute si cura con programmi che indicano cosa mangiare, bere,
come lavorare, respirare, far l'amore, far politica, far ginnastica,
cantare, sognare, far la guerra, soffrire. La cura maggiore consiste
nel consolare, assistere e confortare il prossimo. Si attende che
ritorni alla salute, è perciò la maggior cura una forma di
tolleranza della sofferenza altrui. L'ideologia diffusa della
medicina cosmopolita va in senso contrario. Questa sradica i codici
culturali tradizionali e impedisce l'elaborazione di nuovi contenuti
che consentano l'autoconservazione e l'elaborazione della sofferenza.
Chiusa la possibilità di una pratica personale, non rimane che
seguire i programmi burocratici, questi, tramite le istruzioni
emanate dai custodi sanitari, indicano come non sia necessario
soffrire dolore, malattia e morte. L'impresa medica ha l'obiettivo di
sostituirsi alle capacità personali con cui gli individui
affrontavano la difficoltà. L'obiettivo della civiltà medica è di
evitare il dolore, eliminare la malattia e annullare il bisogno di
una arte della sofferenza e della morte. L'appiattimento della
prestazione personale virtuosa è la conseguenza del nuovo anatema
lanciato dall'industria sanitaria contro il dolore e la morte. La
tecnocrazia libera gli individui di questo fardello tramite le
istituzioni sanitarie. Così questo obiettivo della medicina
metropolitana è imposto contro ogni programma culturale che incontra
nella sua progressiva colonizzazione. L'esperienza del dolore
differisce nelle diverse civiltà storiche. La sensazione dolorosa si
trasforma in una esperienza individuale che è la sofferenza. Ora il
passaggio che tenta la medicina è di trasformare questa esperienza
in un problema tecnico. In questo modo l'individuo non accetta più
di soffrire, di fronte al malessere sente di avere diritto ad un
riguardo. Nelle culture tradizionali la sfida alla sofferenza è
questione personale, nella medicina cosmopolita invece la richiesta è
rivolta all'economia estraendola dal quadro esistenziale. La cultura
è un sistema di significati, la civiltà cosmopolita è un sistema
di tecniche. Così la salute da valore d'uso diviene valore
monetario, cioè merce. Questo modo di vedere le cose Illich lo mutua
direttamente da Marx. Indica questo passaggio ciò che Marx definisce
alienazione. Siamo in questo caso alienati della capacità di curarci
da soli. Ciò comporta una condizione del dolore completamente
diversa. Prima questo era inserito in un contesto carico di senso.
Ora invece è solo da eliminare. Solo un dolore che si considera
rimediabile non si può sopportare. Questa è la nuova condizione.
Cultura tradizionale e civiltà tecnologica viaggiano in direzioni
opposte.
'Il
dolore patito dagli individui aveva l'effetto di stabilire un limite
all'abuso dell'uomo da parte dell'uomo. Le minoranze sfruttatrici
potevano vendere alcol o predicare religioni per intontire le
vittime, e gli schiavi potevano dedicarsi al blues o a masticare
coca; ma al di là di un punto critico di sfruttamento, le economie
tradizionali fondate sulle risorse del corpo umano non potevano più
reggersi. Qualunque società che infliggesse disagi e dolori tanto
intensi da divenire culturalmente 'insoffribili', non poteva che
finire. Oggi una parte crescente dell'intera massa di dolori è
prodotta dall'uomo, è un effetto collaterale delle strategie con cui
si persegue l'espansione industriale. Il dolore non è più sentito
come un male 'naturale' o 'metafisico': è una maledizione sociale, e
per impedire che le 'masse' maledicano la società quando sono
colpite dal dolore, il sistema industriale elargisce loro una
medicina che lo sopprime. Il dolore si traduce così in accresciuta
domanda di farmaci, ospedali, servizi medici e altre forme di cura
professionalizzata e impersonale, nonché in sostegno politico a
un'ulteriore crescita dell'istituzione medica, senza riguardo per il
suo costo umano, sociale o economico. Il dolore è cioè diventato un
problema di economia politica, il che scatena un processo a valanga:
tramutato in consumatore di anesttesia, l'individuo non può che
chiedere sempre maggiori dosi di prodotti e servizi che gli procurino
artificialmente insensibilità, stordimento, incoscienza.' (Ivan
Illich, Nemesi
medica. L'espropriazione delle salute,
BE Editore.)
La distopia della
civiltà occidentale vede nel dolore solo un fattore accidentale del
sistema socioeconomico da superare con interventi straordinari. La
sensazione del dolore è determinata da messaggi che giungono al
cervello. L'esperienza che ne deriva è legata al corredo genetico e
da alcuni fattori funzionali, oltre che dalla natura e intensità
dello stimolo: cultura, ansia, attenzione, interpretazione. Tutti
questi fattori sono modellati da determinanti sociali: ideologia,
struttura economica, carattere della società. Ad esempio, è un
fattore culturale che stabilisce chi deve gemere quando nasce un
bambino: il padre, la madre, tutti e due insieme. Sono quindi il
risultato di questo addestramento e delle convinzioni conseguenti che determinano il grado di dolore sopportabile. Sono spesso rimedi superstiziosi che inducono un sollievo magicamente maggiore che nella religione
colta. Di fronte alla medicalizzazione tutte le determinanti sociali
vengono distorte. Per la cultura il dolore è un disvalore, mentre
per la medicina è una reazione organica, sistemica, che si può
misurare, regolare e controllare. C'è una obiettivazione per cui il dolore diventa
oggetto di controllo. Naturalmente sono i medici a decidere quali
sono i dolori autentici, quali immaginati e quali simulati. La
compassione così va a farsi friggere e chi soffre trova intorno a sé
un contesto in cui non c'è comprensione dello stato di oppressione
avvertito, così il senso dell'esperienza viene meno. L'elaborazione
del dolore è un fattore culturale, ma l'esperienza in sé è
assolutamente personale. La compassione che proviamo per chi sta
male è determinata proprio dal fatto che siamo consapevoli che il
suo dolore riguarda specificatamente solo lui, gli altri possono solo
immaginarlo. Se un medico obbiettiva il dolore reificandolo, il senso
che abbiamo indicato viene meno. Viene meno proprio l'unicità di chi
esperisce tale condizione dolorosa. I medici d'altronde hanno
studiato come manipolare il dolore unico che ciascuno prova in modo
esterno e standardizzato; si interessano ad una indagine sistemica,
cioè organica, che è l'unico modo oggettuale aperto alla verifica
operativa. Così il risvolto personale sfugge a questa indagine
operativa. Il controllo sperimentale ignora l'aspetto unico che
costituisce il paziente reale che ha davanti a sé. Di solito le
proprietà analgesiche di un prodotto sono sperimentate sugli
animali, pensate un poco voi come, poi se ne verifica la validità
sulle persone. A volte anche queste ultime sono usate come cavie da
laboratorio. In tali casi gli effetti tra cavie e uomo è simile. Ma
appena si usano i farmaci in chi soffre veramente gli effetti
cambiano confronto alla situazione sperimentale. In laboratorio le
persone sono come i topi, fuori no. Il limite estremo di questa
esperienza è costituita dalle persone lobotomizzate, queste sentono
il dolore solo come disagio perché hanno perso la capacità di
soffrirne. Il risultato è che l'ipertrofia dell'intervento tecnico
ha sostituito tutte le altre dimensioni culturali che contribuivano
ad arginare l'esperienza del dolore: parole, droghe, miti e modelli.
Le parole da dire, le sostanze da prendere, le narrazioni da
ricordare e gli esempi da seguire sono drasticamente sostituiti dal
nuovo mito, dalla nuova narrazione, dalle nuove sostanze, tutte
rigorosamente determinate dal monopolio medico. Questa concezione, secondo Illich, ha un prerequisito filosofico che ha cambiato la mentalità dell'uomo moderno. Data da Cartesio questa nuova
percezione e si basa sulla divisione tra res cogitans e res extensa.
Situa da allora il momento in cui il dolore inizia a perdere la sua
dimensione personale diventando il segnale di qualcosa che non
funziona. E' così che il corpo difende la sua integrità meccanica per
Cartesio. L'anima ormai viene concepita in maniera separata dal
corpo. Leibniz prosegue in questa indicazione del suo maestro quando
dice:
'"Il
grande ingegnere dell'universo ha fatto l'uomo nel modo più perfetto
possibile, e per la sua conservazione non ha potuto inventare
dispositivo migliore che fornirlo d'un senso del dolore".
Istruttivo il commento che Leibniz dedica a questa frase. Comincia
dicendo che in linea di principio sarebbe stato ancora meglio se Dio
avesse usato un rinforzo positivo anziché negativo, ispirando
piacere ogni volta che un uomo si scosta dal fuoco che potrebbe
divorarlo; però conclude, Dio avrebbe potuto riuscire su questa via
solo operando miracoli, e poiché per principio Dio evita i miracoli,
il dolore è un espediente necessario e brillante per garantire il
funzionamento dell'uomo.' (Ivan
Illich, Nemesi
medica. L'espropriazione delle salute,
BE Editore.)
Insomma,
in breve tempo il dolore diventa utile a capire i problemi del corpo.
Un regolatore delle funzioni corporee. Una spia delle avarie. Non
c'era più bisogno di spiegazioni metafisiche, cioè realistiche, ma
razionali. Perso ormai qualsiasi aspetto mistico il dolore può essere
studiato empiricamente allo scopo di eliminarlo. Questa la nuova
sensibilità con cui si presentava l'epoca moderna. Il progresso era
l'eliminazione sistematica di quanto più dolore possibile. La
politica veniva concepita non tanto come ricerca della felicità ma
come riduzione del dolore. Il risultato è che il dolore colpirà
solo alcuni poveretti per cui la borsa degli strumenti medici non
viene usata. Piuttosto che fronteggiarlo ormai il dolore va sfuggito
a qualsiasi prezzo. Anche a costo di perdere l'indipendenza. Man mano
che l'analgesico diffonde i suoi effetti meno si apprezzano le gioie
e i piaceri semplici della vita, una società anestetizzata non sa
più coglierli, gli stimoli devono essere sempre più forti. Più
rumore, velocità, veemenza, per distruttive che siano. Il passo che
seguirà a questa nuova impostazione estesa, cioè geometrica, del
corpo è la contemporanea individuazione dei metodi statistici.
Questi indicheranno gli standard che per il corpo significano salute
o malattia. Chi è sotto certi standard è un potenziale malato.
Tutto ciò che non corrisponde alla norma clinica è dunque da
rimettere in squadra. Norma in latino significa squadra. Normal
in inglese significa che fa un angolo di 90 gradi, cioè retto.
Questo è ciò che dichiariamo normale. Ora, non solo le cose ma
anche le persone cadono in questa definizione. La geometria si
socializza. Fu Auguste Comte a dargli la sua odierna connotazione
medica. Una volta conosciuto lo stato normale dell'organismo allora
si potrà cominciare uno studio della patologia comparata. Norme e
standard alla fine dell'Ottocento diventano criteri fondamentali per
la diagnosi e la terapia medica. La deviazione non era considerata
di per sé malattia ma il motivo che legittima l'intervento medico.
In questo modo si diffonde la misurazione clinica. La società
diviene una clinica. Tutti i cittadini sono dei pazienti che devono
essere sorvegliati continuamente perché i loro parametri rientrino
nella norma. In questo quadro è evidente che il processo di cui
stiamo parlando è più legato alla epistemologia che non alla
fisica. Foucault dice che se uno scienziato crede che la luna gira
intorno alla terra e un altro il contrario, non è interessato a ciò
che effettivamente è vero, è interessato solo ai loro discorsi.
Illich si muove con lo stesso metodo. Vediamo in questa affermazione
un elemento fondamentale per comprendere la filosofia. Il pensiero
non segue la verità, come invece fa la conoscenza, segue il senso. Non è che la verità garantisca di più. Pensate ai malati psichiatrici che per essere liberati dalla follia nell'Ottocento venivano purgati per mesi. Questo
concetto, differenza tra pensiero e conoscenza, è sviluppato magistralmente dalla Arendt, spero di poterlo riprendere in
altre occasioni. Comunque, è epistemologicamente che si definiscono le malattie e le
loro cure. Per questo Illich ritiene che la malattia si può
considerare come la materializzazione di un mito politicamente
conveniente. Perché in questo modo anziché incidere sui problemi
reali per cui si sta male, la condizione inumana in cui viviamo, dei
professionisti invece di accusare i loro colleghi di essere la
causa che provoca quelle condizioni, ci dichiarano malati coprendo il
vero stato delle cose, ci curano e moltiplicano le opportunità di
lavoro per i colleghi dell'industria. Se il corpo si ribella alle
richieste della società industriale il medico lo dichiara malato. Il
male che la società produce così ha un nome.
'In
ogni società la classificazione della malattia (nosologia)
rispecchia l'organizzazione sociale. Il male che la società produce
viene battezzato dal dottore con nomi che sono molto cari ai
burocrati. La 'incapacità di apprendimento', la 'ipercinesia' o la
'disfunzione cerebrale minima' spiega ai genitori perché i loro
bambini non imparano, servendo da alibi all'intolleranza o
all'incompetenza della scuola; la pressione alta serve da alibi per
lo stress che aumenta, la malattia degenerativa per l'organizzazione
sociale che produce degenerazione. Più la diagnosi è persuasiva,
più appare preziosa la terapia, più è facile convincere le persone
che esse hanno bisogno una dell'altra, e meno è probabile che esse
si rivoltino contro la crescita industriale... Prima che la malattia
fosse considerata essenzialmente una anomalia organica o del
comportamento, chi si ammalava poteva ancora trovare negli occhi del
medico un riflesso della propria angoscia e un qualche riconoscimento
dell'unicità della sua sofferenza. Oggi, ciò che vi trova è lo
sguardo fisso di un contabile di biologia assorto in un calcolo
costi/ricavi. Il suo malessere gli viene sottratto per diventare
materia prima di un'impresa istituzionale. La sua condizione è
interpretata secondo una serie di regole astratte in una lingua che
lui non può comprendere. Gli si insegna che esistono certe entità
ostili che la medicina combatte, ma dicendogli solo quel tanto che i
dottore ritiene necessario per ottenere la collaborazione del
paziente. Il linguaggio diventa proprietà esclusiva del medico; il
malato rimane privo di parole significative con cui esprimere la sua
angoscia che viene così ulteriormente aggravata dalla mistificazione
linguistica... Non appena l'efficacia della medicina venga valutata
in linguaggio corrente, si vede subito che la maggior parte delle
diagnosi e delle cure efficaci, non va oltre il livello di
comprensione raggiungibile da qualunque profano. Infatti gli
interventi diagnostici e terapeutici che statisticamente risultano
più utili che dannosi presentano nella stragrande maggioranza, due
caratteristiche: richiedono mezzi materiali estremamente economici, e
possono essere dosati e predisposti per l'uso personale diretto o per
l'impiego nell'ambito della famiglia.' (Ivan
Illich, Nemesi medica.
L'espropriazione delle salute, BE
Editore.)
Insomma,
un uso più austero della tecnologia metterebbe in grado tutti di
curarsi nella maggior parte dei casi da soli. Ma non è l'efficacia
dell'intervento ciò che interessa la medicina, la sua regola è
invece andare più possibile incontro alle esigenze di un consumatore
per il quale domina la mitologia dell'efficienza medica.
Conclusioni.
'La
Rivoluzione francese dette origine a due grandi miti: uno, che i
medici potevano surrogare il clero; l'altro, che grazie al
cambiamento politico la società avrebbe riacquistato la sua salute
originaria. (1) La malattia divenne una questione pubblica.
In
nome del progresso, cessava d'essere un fatto che riguardava il
malato. (2) Nel 1792, per parecchi mesi, l'Assemblea nazionale di
Parigi discusse come sostituire i medici che traevano lucro dalla
cura dei malati con una burocrazia terapeutica incaricata di
amministrare un male che era destinato a scomparire con l'avvento
della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità.
Il
nuovo clero sarebbe stato mantenuto con i beni confiscati alla
Chiesa.
Esso
doveva convertire la nazione a un modo di vita sano che rendesse meno
necessarie le cure mediche.
Ogni
famiglia doveva riacquistare la capacità di assistere i propri
membri e ogni villaggio di provvedere agli ammalati privi di parenti.
Un
servizio sanitario nazionale avrebbe avuto il compito di
sovrintendere alla salute e di promuovere leggi dietetiche e
regolamenti che obbligassero i cittadini a utilizzare le conquistate
libertà in direzione d'una vita frugale e di piaceri sani.
Ufficiali
sanitari avrebbero vigilato sull'osservanza di tali norme da parte
dei cittadini, e appositi tribunali di sanità presieduti da
magistrati-medici avrebbero perseguito i ciarlatani e i
profittatori.' (Ivan Illich,
Nemesi medica. L'espropriazione delle
salute, BE Editore.)
Rousseau
aveva teorizzato che lo stato di natura valeva anche per le malattie,
si trattava perciò di restaurare la malattia selvaggia, che si
limita da sé, che si deve curare nelle case stesse, perché allorché
lo sfruttamento spezza la famiglia la malattia diventa maligna e
degradante. Questo è il risultato dell'incivilimento e
dell'urbanesimo. Le malattie che si vedono negli ospedali sono il
risultato, secondo i seguaci di Rousseau, delle forme di ingiustizia
sociale, conseguenza degli egoismi che provocano la miseria nella
popolazione. La medicina diventa così problema politico. Con la
Restaurazione il compito di debellare la malattia viene dato ai
medici. Dopo il Congresso di Vienna, tutti gli stati europei si
ritrovano per restaurare l'ancien regime, gli ospedali si
moltiplicarono, le scuole di medicina videro un grande sviluppo. Gli
ospitali, che erano stati inventati per ospitare pellegrini, poveri,
diseredati, malati, folli, rappresentavano l'ultima stazione del
pellegrinaggio verso la morte. Chi non aveva possibilità di
sopravvivere si rivolgeva come estrema ratio a queste
istituzioni. Dunque erano da schivare il più possibile. All'interno
le spese per le medicine rappresentavano solo il 3% del magro
bilancio di questi luoghi, che di solito erano gestiti da suore o da
ordini religiosi. I medici iniziarono ad affacciarsi nei luoghi di accoglienza e a curare i
bisognosi. Presto si accorsero che le patologie presenti in gran
numero ne facevano il luogo ideale per classificare le malattie e per
sperimentare le loro terapie. Fatto è che il nuovo modo di percepire
il medico come taumaturgo e salvatore, secondo Illich, era
conseguenza non dell'efficacia delle nuove terapie ma di una
richiesta rituale e magica che dava credibilità al disegno nel quale
la rivoluzione politica aveva fallito. La malattia e la salute per
accampare diritti sulle risorse dovevano essere tradotti da concetti
generali in termini operativi. Le malattie si dovevano inquadrare in
modo oggettivo. Prima i medici generici conoscevano un paio di
malattie, il vaiolo e la peste. Dopo la metà dell'Ottocento chiunque
era in grado di descrivere in termini medici almeno una dozzina di
patologie. I disturbi erano diventati malattie oggettive che
infestavano l'umanità. Si potevano trapiantare e coltivare in
laboratorio, venivano sistemate in cliniche, bilanci, archivi e
musei. Si poteva gestire amministrativamente la salute e la malattia.
Un ramo della élite fu incaricato dalla classe dominante di
provvedere alla vigilanza e alla eliminazione della malattia. La
divisione cartesiana tra res cogitans e res extensa portò alla
concezione meccanicistica del corpo. Il dolore da allora è concepito come il segnale di qualcosa che non va sotto il profilo
fisico. La pratica medica diventa così ospedaliera e clinica. Le
malattie identificate sono inventariate. Con il contemporaneo
sviluppo dei metodi statistici la salute ha uno status clinico, è
assenza di sintomi clinici. Questo è lo standard clinico della
normalità.
'Una
quantità di incisioni provenienti da biblioteche di medici della
fine dell'Ottocento mostra il dottore che lotta al capezzale del
paziente contro malattie personificate.
La
speranza del medico di riuscire a controllare il decorso di
specifiche malattie ha fatto nascere il mito di una sua potestà
sulla morte. I nuovi poteri attribuiti alla professione hanno dato
origine al nuovo status del clinico. (46) Mentre il medico di città
diventava un clinico, quello di campagna diveniva dapprima sedentario
e poi membro della élite locale. Al tempo della Rivoluzione
apparteneva ancora alla categoria degli ambulanti. Dopo le guerre
napoleoniche, i chirurghi dell'esercito messi in congedo tornarono a
casa ricchi d'una vasta esperienza e bisognosi di sistemazione.
Formatisi
sui campi di battaglia, questi ex militari non tardarono a diventare
i primi guaritori a residenza stabile, in Francia, in Italia e in
Germania.
La
gente semplice non si fidava completamente dei loro sistemi e i
borghesi rispettabili erano urtati dalla grossolanità dei loro modi,
ma clientela tuttavia non ne mancava, data la fama di cui godevano
tra i reduci delle guerre napoleoniche.
Mandavano
i figli alle nuove facoltà di medicina che si aprivano allora in
molte città, e questi al loro ritorno crearono la figura del medico
di campagna, che sarebbe rimasta immutata fino alla seconda guerra
mondiale.
Il
ruolo di medico di famiglia presso una borghesia largamente fornita
di mezzi garantiva loro un reddito regolare. Alcuni ricchi di città
o di provincia per ragioni di prestigio preferivano farsi curare da
clinici famosi, ma una concorrenza assai più preoccupante per il
medico di provincia, nel primo Ottocento, era ancora quella dei
praticoni d'un tempo, la levatrice, il cavadenti, il veterinario, il
barbiere, e talvolta anche l'infermiera pubblica. Intorno alla metà
del secolo, malgrado la novità del suo ruolo e le resistenze che
incontrava sia in alto sia in basso, il medico di campagna europeo
era ormai entrato a far parte della borghesia. Guadagnava
abbastanza facendo il lacché al signorotto locale, era amico di
famiglia degli altri notabili, ogni tanto andava a visitare i malati
d'umile condizione, e indirizzava i casi complicati al suo collega
clinico di città.' (Ivan
Illich, Nemesi
medica. L'espropriazione delle salute,
BE Editore.)
La
morte naturale diventa il nuovo imperativo medico. Tale condizione
viene richiesta anche sindacalmente come diritto di tutti. La morte
naturale è priva di causa. Bisogna esaurirsi naturalmente ancora
seduti sulla poltrona di comando. L'idea della morte naturale si
incrocia con quella di progresso sociale. Un dizionario recita: la
morte naturale interviene senza essere preceduta da malattia, senza
una causa specifica definibile. La morte anormale è l'opposto di
quella naturale in quanto è conseguenza di malattia, di una violenza
o di disturbi meccanici e cronici. Si diffonde così la
contraddizione borghese anche sindacalmente con la richiesta al
diritto di tutti alla morte naturale. Così si estende anche agli
operai la richiesta di servizi sanitari anziché liberarsi dai mali
del lavoro industriale. Questo ideale clinico è l'opposto di quanto
aveva richiesto l'Assemblea nazionale del 1792. Questa nuova immagine
della morte richiede nuovi livelli di controllo sociale. La società
è responsabile di impedire la morte di ciascun suo membro.
L'intervento terapeutico diventa un dovere. Qualunque decesso avvenga
senza medico può interessare la giustizia. Incontrare un medico
ormai è ineluttabile. Una donna, racconta Illich, tenta il suicidio,
si spara alla colonna vertebrale e in coma viene portata in ospedale.
Eroicamente il medico la guarisce, è completamente paralizzata ma il
chirurgo così non ha da temere che ritenti il suicidio. La nostra
nuova morte è correlata al nuovo ethos industriale. La buona morte è
quella del consumatore di cure mediche. Come all'inizio del secolo
l'uomo fu definito un alunno che aveva bisogno di otto anni di
scuola prima di entrare nella vita produttiva, così il nuovo nato è
immediatamente reso un paziente bisognoso di ogni specie di terapie.
Consumo d'istruzione è il metodo per attenuare la preoccupazione
intorno al lavoro, il consumo di medicine lo è per ovviare
all'insalubrità delle condizioni di lavoro, alla sporcizia delle
città e al logorio dei trasporti. Non ci si deve preoccupare se
l'ambiente è sempre più velenoso, ci sono le cure adatte.
'Fino
all'Ottocento è sempre la morte che conduce il gioco rispetto al
medico o al malato.
I
due contendenti stanno ai due capi del letto su cui giace il
paziente.
Soltanto
dopo che la malattia clinica e la morte clinica hanno avuto un
notevole sviluppo troviamo le prime immagini in cui l'iniziativa
appartiene al medico, che si frappone tra il paziente e la morte.'
(Ivan
Illich, Nemesi
medica. L'espropriazione delle salute,
BE Editore.)
Si
può superare la iatrogenesi solo se si comprende che è il risultato
del rovinoso dominio della società industriale. E' il risultato
della controproduttività che va emergendo in ogni sfera industriale.
Al
pari dell'accelerazione che fa perder tempo, dell'istruzione che
istupidisce, della difesa militare che si autodistrugge,
dell'informazione che disorienta, dei piani urbanistici che creano
disordine, la medicina patogena è il risultato di una
sovrapposizione industriale che paralizza l'azione autonoma. E'
necessario distinguere però la controproduttività da altri due
fenomeni con i quali si confonde facilmente. Cioè l'utilità
marginale decrescente e l'esternalità negativa. Bisogna distinguere
la controproduttività dalla crescita dei prezzi e dai costi sociali
opprimenti. Altrimenti la sua azione sarà valutabile solo come costi
ricavi. Ogni tecnologia dovrebbe essere valutata all'interno di
questa griglia e non solo con quella dei costi e ricavi. I costi
diretti rispecchiano gli oneri della rendita, le spese dei materiali,
e altre remunerazioni. Il costo di produzione di 1 km passeggero
indicano le spese sostenute per produrre e mantenere in funzione
veicolo e strada, più il profitto di chi detiene il controllo del
trasporto e dei mezzi di produzione, oltre ai diritti pretesi dai
burocrati, coloro che monopolizzano il capitale delle conoscenze
utilizzate nel corso dell'operazione. Le varie rendite formano il
prezzo sia se è pagato direttamente dal consumatore o dall'ente
pubblico. I costi sociali non compresi nel costo monetario sono le
esternalità negative. Sono le privazioni, i danni, le scomodità,
che impone agli altri ogni km che percorriamo su un mezzo. La sporcizia,
il rumore e la bruttezza che ogni auto apporta. La degradazione
dell'ambiente, l'inquinamento, l'ossigeno che brucia, le spese delle
forze di polizia,e la discriminazione dei più poveri, sono tutti
elementi che non fanno parte del calcolo. Alcune si potrebbero
rendere interne e calcolare. Ma se tutte le esternalità fossero
calcolate il prezzo salirebbe al punto che discriminerebbe la maggior
parte degli utenti. Sarebbe un privilegio assoluto. Al di là di un
certo grado di intensità le esternalità non si possono caricare sui
costi ma solo spostare. La controproduttività è diversa sia sotto
il profilo sociale che individuale. Si verifica ogni volta che una
istituzione toglie alla società proprio quelle cose che doveva
fornire. E' una frustrazione incorporata. Il prezzo è quanto
ciascuno è disposto a spendere per quel servizio, le esternalità
sono quanto la società deve tollerare per quel consumo, la
controproduttività indica il grado di dissonanza cognitiva derivante
dall'operazione. Indicatore sociale del funzionamento contro
intenzionale di un settore economico. Insomma, crediamo che le cose vadano in un certo modo mentre vanno in senso opposto.
'L'intensità
iatrogena dell'impresa medica contemporanea è solo un esempio
particolarmente doloroso delle frustrazioni generate dalla
sovrapproduzione, le quali si manifestano, in eguale misura, sotto
forma di accelerazione del traffico che si risolve in perdita di
tempo; di staticità nelle comunicazioni; di addestramento a una
perfetta incompetenza nell'istruzione; di sradicamento come risultato
dello sviluppo urbanistico; di supernutrizione distruttiva.
Questa
controproduttività specifica è un effetto collaterale indesiderato
della produzione industriale, che non si può scaricare all'esterno
del particolare settore economico che lo produce.
Fondamentalmente
essa non è dovuta né a errori tecnici né a sfruttamento di classe
bensì alla distruzione, provocata dal regime industriale, delle
condizioni ambientali, sociali e psicologiche che sono necessarie per
lo sviluppo dei valori d'uso non-industriali e nonprofessionali.
La
controproduttività è il risultato di una paralisi delle capacità
pratiche autonome, indotta dal modo di vita industriale. La
distorsione industriale del nostro comune senso della realtà ci ha
reso ciechi al grado di contraddittorietà raggiunto dall'impresa
contemporanea.
Viviamo
in un'epoca in cui l'apprendere è pianificato, l'abitare
standardizzato, lo spostamento motorizzato, la comunicazione
programmata, e in cui per la prima volta nella storia dell'umanità
gran parte delle derrate alimentari che si consumano proviene da
mercati lontani.
In
una società così intensamente industrializzata, la gente è
condizionata a RICEVERE le cose anziché FARLE; è educata ad
apprezzare ciò che si può comprare e non ciò che essa stessa può
creare. Vuol essere istruita, trasportata, curata, guidata, anziché
apprendere, muoversi, guarire, trovare la propria strada. Si
assegnano funzioni personali a istituzioni impersonali.
L'azione
di guarire non è più considerata compito del malato.
Dapprima
diventa la mansione di singoli riparatori del corpo, e poi subito da
prestazione personale si trasforma nell'"output" di un ente
anonimo, Nel corso del processo, la società viene riordinata in
funzione del sistema d'assistenza e diventa sempre più difficile per
la persona provvedere alla propria salute. Beni e servizi ingombrano
i campi della libertà.
Le
scuole producono istruzione, i veicoli a motore locomozione, e la
medicina produce assistenza.
Questi
"outputs" sono articoli che hanno tutte le caratteristiche
di merci.
I
loro costi di produzione si possono aggiungere o sottrarre al
prodotto nazionale lordo, la loro scarsità si può misurare in
termini di valore marginale e se ne può stabilire il prezzo in
equivalenti monetari. Per la loro stessa natura questi prodotti
creano un mercato.
Come
l'istruzione scolastica e il trasporto motorizzato, la cura medica è
il risultato di una produzione di merci ad alta intensità di
capitale; i servizi prodotti sono fatti per altri, non con altri né
per chi li produce. A causa della nostra visione del mondo ormai
industrializzata, spesso si trascura che ognuna di queste merci
continua a essere in concorrenza con un valore d'uso non
commerciabile che gli individui producono liberamente, ciascuno per
proprio conto.
L'essere
umano impara osservando e facendo, si muove sulle proprie gambe,
guarisce, si prende cura della propria salute e contribuisce alla
buona salute degli altri.
Tutte
queste attività hanno dei valori d'uso che non sono alienabili su un
mercato.
L'apprendimento
dotato di valore, il movimento corporeo, l'azione di guarire, per la
maggior parte non figurano nel prodotto nazionale lordo.
La
gente impara la lingua materna, si muove, fa figli e li alleva,
recupera l'uso di ossa rotte, prepara il cibo locale, e fa queste
cose con maggiore o minore competenza e piacere.
Queste
sono tutte attività ricche di valore che il più delle volte non si
fanno né possono essere fatte per denaro, ma che possono essere
svalorizzate se c'è troppo denaro in giro.' (Ivan
Illich, Nemesi
medica. L'espropriazione delle salute,
BE Editore.)
L'efficacia
di ciascun prodotto industriale è allora nel rapporto tra produzione
di merci da parte della società e la produzione autonoma di valore
d'uso corrispondenti. Ci deve essere un equilibrio tra prodotti
venduti sul mercato e l'azione spontanea e inalienabile degli
individui.
Se
la maggior parte delle esigenze è risolta con la creatività
personale la gente è soddisfatta, lo scarto tra aspettativa e
gratificazione tende a essere esiguo e perciò stabile. L'economia di
sussistenza rende possibile questo equilibrio. Se a questa condizione
integrassimo gli outputs industriali prodotti al di fuori del
controllo diretto della comunità, questo sarebbe il modo ideale per rendere l'attività autonoma più efficace. Ma se questo equilibrio si sposta
tutto a favore dell'industria, allora il rapporto tra un modo di
produzione autonomo e eteronomo diventa negativo. Gli individui sono
educati a consumare anziché agire, si restringe il loro raggio
d'azione, diminuisce la loro libertà. Lo strumento divide il
lavoratore dal suo lavoro. Chi andava in bici è espulso dalle
macchine in gran quantità. Il paziente che si cura da solo trova che
i rimedi sono inaccessibili senza ricetta medica. I due modi di
produrre autonomo e eteronomo si possono aiutare o ostacolare a
vicenda.
disfunzione sono resi tollerabili ed è favorita la ripresa. La
soddisfazione efficace di questi bisogni va nettamente distinta
dall'efficienza con cui si fabbricano e si mettono sul mercato i
prodotti industriali, come dalla somma dei titoli di studio, dei
chilometri/passeggero, delle unità abitative o delle prestazioni
sanitarie effettuate.
Al di là di una certa soglia, questi "outputs" diventano tutti
necessari unicamente come rimedi; prendono il posto di attività
personali rimaste paralizzate da precedenti "outputs" industriali.
I criteri sociali idonei a stabilire l'efficace soddisfazione dei bisogni
non hanno nulla a che fare con gli strumenti di misura che si usano
per valutare la produzione e la distribuzione dei beni industriali.
Poiché la misurazione quantitativa non registra la parte svolta dal
modo autonomo nella realizzazione dei maggiori obiettivi sociali,
non può indicare se la loro efficacia complessiva sta aumentando o
diminuendo. Il numero dei laureati, per esempio, potrebbe essere
inversamente proporzionale alla competenza generale. Ancora
meno la misurazione tecnica può indicare chi trae beneficio dalla
crescita industriale e chi ci scapita, quali sono i pochi che ottengono
di più e possono fare di più, e quali invece ricadono nella
maggioranza che paga il suo limitatissimo accesso ai beni industriali
con la perdita della possibilità di agire autonomamente.
Solo il giudizio politico può fare il bilancio. Le persone più colpite
dall'istituzionalizzazione controproducente non sono, di solito,
quelle più povere in termini monetari.
Le tipiche vittime della spersonalizzazione dei valori sono coloro
che si trovano senza potere in un ambiente che è fatto per i
locupletati dall'industria. Tra questi impotenti ci possono essere
delle persone che nella loro cerchia sociale sono relativamente
benestanti, oppure gli ospiti delle istituzioni totali benigne. La
dipendenza inabilitante li riduce allo stato di povertà che è proprio
dell'era moderna. Le politiche intese a porre rimedio a questo nuovo
senso di privazione non soltanto sono vane ma aggravano il danno:
promettendo maggiori beni di consumo invece di proteggere
l'autonomia, intensificano la dipendenza inabilitante.' (Ivan Illich,
Nemesi medica. L'espropriazione delle salute, BE Editore.)
Franco Insalaco
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