Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


giovedì 15 febbraio 2018

Franco Insalaco. Ramachandran e il dolore, tra neuroscienze, filosofia e poesia.


Homunculus di Penfield
Colpisce delle nuove esperienze scientifiche quella sul dolore. Mi riferisco ad una delle più particolari, il dolore dell'arto fantasma studiato da Ramachandran. Cos'è l'arto fantasma? Il nostro corpo ha connessioni con il cervello identificabili nell'homunculus di Penfield con la sua rappresentazione del corpo sdraiato, per così dire, sugli emisferi cerebrali sia per ciò che riguarda le sensazioni che il movimento. Le aree cerebrali che controllano le funzioni degli arti e degli organi hanno connessioni più o meno sviluppate secondo l'uso. Se sono un ballerino l'area che controlla il piede sarà molto più estesa che se faccio il dattilografo. Il cervello si plasma in base alle attività che il corpo esegue. Ora capita a chi ha avuto la disavventura di perdere un arto, per esempio in seguito a qualche patologia, che anche dopo


amputato senta la sua presenza in modo fastidioso se non addirittura doloroso. Sorprende che si avverta ancora ciò che non c'è più. Ma la spiegazione è tremendamente semplice, l'arto è collegato, come dicevamo prima, ad una area del cervello deputata alle sensazioni e ai movimenti. Insomma, in questa prospettiva la spontanea e classica separazione tra hardware e software diviene molto problematica. Nel senso che qui sembra tutto hardware comprese le sensazioni. Il dolore in questo contesto si fatica a separarlo tra fisico e spirituale. Sono la stessa cosa. Non è semplicemente l'abitudine ad avere l'arto che non c'è più a farmi continuare ad avvertirlo e sentirlo. Invece l'area corticale dei neuroni rimasti senza lavoro fa sciopero all'incontrario, lavora anche se è stata licenziata. Un bel problema se pensate al dolore dei pazienti, fortunatamente risolto in modo brillante proprio da Ramachandran. Troverete la spiegazione dettagliata della risoluzione del dolore dell'arto fantasma nei suoi testi più noti, ad esempio 'Che cosa sappiamo della mente' edito da Mondadori. Sempre il neuroscienziato indiano mostra come funziona il nostro cervello di fronte ad un altra patologia legata questa volta all'insulto che riceve un'area cerebrale colpita da ictus. Ne segue la nota difficoltà ad usare il lato del corpo corrispondente all'area colpita. Ma se l'area è in uno o nell'altro emisfero la difficoltà e il comportamento del paziente è differente. Nel caso dell'emisfero sinistro per lo più il paziente riconosce che il lato destro del corpo non è più controllabile. Nel caso opposto invece no. Accade per il semplice motivo che danneggiata è un area predisposta alle verifiche delle sensazioni proveniente dagli arti, capace di distinguere se sono immaginarie o reali, residente nell'emisfero destro. Senza questa conferma o confutazione il cervello pur vedendo che il braccio è paralizzato pensa sia di un altro. Cioè tende a mantenere integra l'immagine del corpo. Insomma, difende anche di fronte all'evidenza la propria identità. Ancora una volta è tutto giocato sotto il profilo dell'hardware. La riduzione che la scienza fa da questo punto di vista è che lo spirito sembra cablato nei circuiti neuronali. È una secrezione umorale che ne definisce le proprietà. Umore nel senso chimico, di sostanze che poi linguisticamente si traducono in sensazioni ed esperienze. Abbia ragione Semir Zeki? Il concetto per lui prima che linguistico è chimico. L'identità del nostro organismo, sotto il profilo immaginale e culturale, è determinata dalla pressione che abbiamo ricevuto e riceviamo dall'ambiente, spesso dolorosa, che plasma non solo più o meno casualmente il genoma, ma più direttamente le nostre esperienze culturali, cioè l'immagine che abbiamo del nostro sé. Una immagine a cui teniamo molto, essendo tutto ciò che sappiamo di noi. Siamo perciò disposti a difenderla ad oltranza, come fa chi è colpito da ictus all'emisfero destro. Non è disposto a riconoscere l'evidenza della difficoltà che ha a muovere, che so, la mano sinistra. L'opposto non avviene perché l'area deputata a controprova dell'emisfero destro, essendo attiva, avverte il cervello che l'arto destro non funziona più.
L'astrazione è la forza motrice che contraddistingue le funzionalità cerebrali. In questo Zeki sembra proprio aver ragione. Il cervello è una meravigliosa macchina per astrarre. Astrarre significa anche ridurre. Cioè nelle aree deputate alla vista ciascuna è specializzata ad un compito. Alcuni neuroni vedono le linee verticali, altri quelle orizzontali, oppure rotonde, o in movimento e così via. Siamo di fronte ad una serie di processi inconsci (1) e paralleli che producono l'immagine fino a crearla nella sua completezza. A questo aspetto corrisponde il fatto che non possiamo vedere altrimenti. Cioè le categorie con cui vediamo il mondo sono circuiti stampati nella nostra testa. Avesse ragione insieme a Zeki pure Kant con le sue categorie? Infatti non posso, neanche se mi sforzo, vedere differentemente i colori. Questi sono sempre percepiti allo stesso modo, a meno che non ci sia un danno alle aree deputate al colore. Questo per dire che le strutture del nostro cervello sono per lo più comuni a tutti e funzionano tendenzialmente allo stesso modo, salvo specifiche patologie. Ora il problema che vorrei porre al centro della questione è il rapporto che il dolore ha con queste strutture. Ramachandran indica come il dolore sia acuto o cronico. Acuto quando ci segnala che un certo comportamento è da evitare: infilo un dito nell'acqua bollente e lo ritraggo immediatamente per il dolore. Imparo a non ripetere l'esperienza segnato dal male provato. Invece se il dolore è cronico mi convinco che per un certo periodo è meglio tenere ferma la parte dolorante finché guarisce.(2) Due forme di dolore per differenti scopi entrambi utili alla sopravvivenza a meno di anomalie. Cosa centra tutto questo con l'identità? Riprendiamo da un'altra prospettiva. Per i filosofi il dolore è sempre stato un problema per la semplice ragione che impedisce di pensare. Il corpo con le sue passioni e i suoi dolori al pensiero a volte è di ostacolo. Per avere certezze la lotta tra corpo e mente si è realizzata sin dall'inizio della filosofia. Anche in modo violento. Ad esempio l'essere è il prescelto dai filosofi come referente della conoscenza, il divenire è invece più problematico. Per l'essere, un poco semplificando, possiamo dire che vota il filosofo, per il divenire il poeta; Eraclito in questa scelta era più vicino alla poesia. Invece Platone pone dalla parte delle idee, cioè dello spirito, la conoscenza dell'essere. L'essere è. Quindi abbiamo una prima certezza. Che in epoca moderna si tradurrà in 'Cogito ergo sum'. Cartesio quindi aveva certezza di essere solo perché trovava nel dubbio il rovello che dimostrava pensando la propria esistenza. Infatti i sensi, potendo sbagliare, dovevano essere sottoposti a verifica continua per cercare la verità attraverso il metodo, cioè con degli strumenti. Cambia completamento il mio rapporto con il mondo ora che non è più direttamente conoscibile tramite i sensi. Per cercare la conoscenza è necessario inventare metodi, strumenti ed esperimenti. Nel tragitto che va da Platone a Cartesio in questione è sempre la verità. Come giungere alla verità dell'essere è il problema in gioco. I sensi e le passioni, compreso il dolore, distraggono dalla ricerca.(3) Ma non solo, è impossibile tale ricerca anche se l'oggetto è in divenire. Come posso conoscere ciò che continuamente cambia? E' appunto impossibile. Perciò tendiamo a cercare nelle cose e in noi una identità, in modo da individuare e distinguere. Diamo una maschera alle cose e agli esseri per riconoscerli. Il divenire che sotto avviene però sfugge. In quel divenire e ribollire (4) è la vita che cambia. Per quante maschere gli mettiamo mai possiamo rappresentarla, così profondo è l'essere. La maschera costringe l'essere a mostrarsi, quasi fotograficamente, in modo fisso ma impreciso. Ecco io sono fatto così, ho una immagine, non rappresentativa ma simbolica, una sorta di foto, il nostro cervello si affeziona a quella struttura al punto che evita di cambiarla il più possibile, cioè lo farà solo quando vi è costretto.(5) Se ciò accade allora sperimentiamo un dolore che non ha più rilievo se è hardware o software, se è materia o spirito, ciò che è sicuro è che a rischio è proprio la nostra sopravvivenza, la nostra identità, l'identità dell'immagine che ognuno ha di sé. Cioè dell'individuo sotto il profilo fisico, sociale e culturale. Ma l'immagine è hardware? Probabilmente Zeki direbbe di sì. In effetti il simbolo si presenta sempre materialmente. Il cambiamento è la pressione che il mondo imprime invalidando ciò che simbolicamente e concettualmente credevamo, magari era giusto ma ora non lo è più. Questa trasformazione può essere dolorosa ma anche liberatoria. Così l'essere che avevamo pensato improvvisamente è sottoposto a cambiamento, spesso materialmente prima, spiritualmente poi. Sono ricco, divento povero, allora cambio le mie idee. Spiritualmente avviene dopo, perché anche di fronte al cambiamento materiale, ricordate Ramachandran, nicchiamo, facciamo finta di niente, 'ma è la mano di mio fratello', diciamo al dottore che ci chiede se funziona. Oppure continuiamo a provare dolore anche se l'arto è perso. Il cambiamento è dunque il problema, anche quello fisico che poi si riflette sull'aspetto simbolico. Certo, come possiamo confrontare il divenire materiale e quello spirituale direte voi, non sono mica la stessa cosa. Fa più male il corpo che lo spirito. Eppure il cambiamento più doloroso è proprio quello che investe quest'ultimo. La pressione che spinge a cambiamenti culturali, soprattutto se continuiamo a credere a principi ormai obsoleti, causa la più grande sofferenza, perché mette in gioco tutto l'essere che siamo, sarebbe meglio dire che sappiamo. Il carnefice immagina la compagna in un certo modo, se questa si ribella sente un dolore così violento che spesso dice di essere stato prima vittima e, a causa sua, dopo di aver reagito massacrandola. La maggior parte dei persecutori nei rapporti di coppia pensa di aver subito per primo la violenza.
La poesia non ha confermato l'essere dei filosofi. Ha preferito seguire il divenire, la vita, le cose e i corpi, non i loro concetti.(6) All'astrazione concettuale dell'immagine ha preferito scegliere le relazioni con le passioni e anche il dolore. Cioè è rimasta ancorata all'incertezza e alla metamorfosi della vita. Ciò comporta, all'opposto della conoscenza, la mancata presa sul mondo. Il poeta non ha potere sul mondo. Non gli interessa neanche quel potere, preferisce sentirlo il mondo, thaumàzein, con stupore. Forse questa scelta è dettata dal fatto che la costruzione dell'essere filosofico è in fondo violenta. Ha ridotto all'astrazione gli enti, i corpi, gli esseri, gli uomini e le donne spiegandoli. Certo ha dato conoscenza, ma ha anche provocato ingiustizia. Anassimandro con questo pensiero ha iniziato la filosofia: .'..Principio degli esseri è l'infinito (ápeiron)....da dove infatti gli esseri hanno l'origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo.' La riduzione violenta di quell'infinito pone gli esseri nell'ordine del tempo cosa necessaria perché si susseguano, ma i cambiamenti portano alla distruzione pagando l'uno all'altro l'espiazione e la pena dell'ingiustizia di finire. Accade perciò sin dall'inizio che il divenire comporti distruzione e pena, dolore e ingiustizia. Fissarlo e ridurlo all'essere, cioè all'idea, come fa Platone per cercare certezze rendendo l'origine eterna, senza inizio né fine, è un atto altrettanto violento. Le armonie celesti sono il riferimento pitagorico e platonico, fino ad Aristotele, Plotino e oltre, di una fotografia dell'Universo pacificata dall'idea di perfezione e bene che sta all'origine dell'essere creato, purtroppo palesemente morale e falsa. La musica colta inclina borghesemente fino alla modernità quel modello morale poi abbandonato per le stesse ragioni anche dalle arti pittoriche e letterarie. La scienza stessa ormai va in una direzione in cui la verità è solo ricerca per mettere in contraddizione le leggi fin qui scoperte. Addirittura la fisica sa la legge, cioè conosce i calcoli e prevede i comportamenti, seppure non capisce cosa significano. Basta dire che la teoria dei quanti è in contraddizione con la teoria della relatività generale. Anche se entrambe sono sperimentalmente confermate. Calcolano cioè in modo giusto e prevedono correttamente il comportamento degli oggetti più piccoli esistenti e quello di ciò che è infinitamente grande. Tuttavia calcolano, cioè descrivono, mondi differenti, al punto che Einstein scriverà a Bohr: 'Dio non gioca a dadi con l'universo'. Siamo sempre più in una prospettiva che sradica completamente l'idea e l'identità che avevamo del mondo. Il gioco scientifico è quello di trovare nuovi limiti alle leggi e spostarli. I novelli Einstein diverranno tali solo se dimostreranno che il grande scienziato aveva sbagliato, allora sì che potranno fregiarsi di essere geniali. A questa rincorsa di nuove identità, di istantanee sempre più veloci, più virtuali, anzi iper reali, con ricadute positive e negative, i poeti non hanno aderito. Rimasti fedeli al mondo continuano a cantarlo senza violenza, ricreandolo. Ma se ricrearlo vuol dire seguire il divenire e le sue possibilità senza volerlo astrattamente ridurre ad una idea, cioè una immagine, allora, date le premesse, il dolore finisce. Dante ne è l'esempio più folgorante, pensava che si dovesse passare dal latino al volgare per rendere possibile la comunicazione e la relazione tra le classi aristocratiche e il popolo, lo ha fatto in modo meraviglioso con la Divina Commedia. Questo è il motivo per cui l'ha scritta? Sì, insieme ad altri che non abbiamo modo di affrontare.(7)
Ciò è il contrario di quanto insegna la scuola raccontando dei poeti la solitudine nelle loro torri, sofferenti e addolorati. I poeti non sono nella torre e non soffrono. Tuttavia ormai per la poesia non c'è molta considerazione nella scuola soprattutto superiore, il problema è il lavoro. Per fortuna o per sfiga, ognuno scelga ciò che preferisce, di questo ce ne sarà sempre meno. L'immagine della cultura che ha la scuola si scontra allora con il cambiamento, vi si oppone, pensa che si tratta di formare, di preparare gli studenti solo per inventare nuovi impieghi. Ma quanto la concezione che ha del lavoro sia inattuale sfugge, che la scuola ponga in essere una vera resistenza al cambiamento nessuno ci pensa, questo atteggiamento sta creando e creerà molto dolore. Il falso mondo rende davvero difficile superare le sofferenze, infatti provoca depressione, fibromialgia, patologie autoimmuni ai ricchi, tutti grandi business per Big pharma, fame e stenti alla controparte. Di cosa sto parlando? Un signore, Martin Schultz, lo stesso indicato alcuni anni fa da Berlusconi quando era presidente europeo come Kapò nel suo prossimo film sul nazismo, è appena andato al governo in Germania, il paese più forte in Europa, dopo che qualche settimana fa aveva dichiarato che il lavoro non dovrebbe essere più legato al profitto.
Note: 1) Kandel, 'L'età dell'inconscio, Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai giorni nostri, Raffaele Cortina. Nel testo Kandel mostra quanto Freud avesse intuito la verità. Cioè che ogni decisione è prima inconscia e poi razionale, a differenza di Freud però l'autore mostra scientificamente come il processo avviene e come sia stato provato sperimentalmente. Naturalmente la proposta è elaborata inconsciamente poi la ragione può decidere se accettarla o no.
2) A volte può essere guarita la ferita ma non segnalata alle aree cerebrali deputate, continuare il dolore provocando reazioni immunologiche che possono mettere a rischio l'arto stesso. In questo caso c'è qualcosa che non funziona nella comunicazione tra arto e cervello.
3) Anche Schopenauer continuerà sulla stessa strada cercando nel buddismo l'atarassia, cioè la negazione del principio di individuazione, della particolarità, del corpo.
4) Il principio di indeterminazione di Heisenberg mostra proprio l'impossibilità di determinare dove e quando sia una particella, questo finché non la mettiamo in relazione con qualcosa, ad esempio lo strumento di misura. Verrebbe da dire finché non la catturiamo sottraendola alle possibili alternative. Finché non le sottoponiamo a misura le particelle ribollono in una nuvola di possibilità, per questo la fisica quantistica, a differenza di quella relativistica, usa il calcolo delle probabilità. Le particelle finché non entrano in relazione rimangono disponibili a tutte le opzioni.
5) Erwin Schrodinger in 'Che cos'è la vita', Adelphi, mette in evidenza come la trasformazione di una molecola sia molto difficile, questo garantisce la permanenza della stessa in quello stato. Non solo l'inorganico è fissato in modo che i suoi elementi non si possono facilmente scombinare ma, scrive il fisico, avviene anche per l'organico e ciò permette la vita.
6) Hegel non amava molto i simboli perché erano troppo limitati nella loro capacità di rappresentare le cose. Il pensiero poteva essere concettualmente corretto solo attraverso un riscontro di tipo logico.
7) Vedi Marco Santagata, 'Dante il romanzo della sua vita', LaFeltrinelli, ma anche 'Dante specchio umano' di Maria Zambrano, Città Aperta

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