PERCHÉ
SI SCRIVE
di
Lorenzo
Barani
1.
Si
scrive perché la scrittura ci precede e noi siamo in quanto
scrittura.
Lacan
afferma che il soggetto inconscio è nel sembiante scritturale che
plasma il suo significante. Derrida della scrittura ne fa l’orizzonte
stesso della pensabilità filosofica, e non solo in termini ebraici o
cristiani. Si scrive, dunque, in quanto si è scritti e perché
scrivendo si sogna di leggersi, almeno un poco.
2.
Si
scrive perché accadiamo nell’immensità dell’immenso e perché
esigiamo tutto il tempo che l’immenso comporta.
La
scrittura, per l’io, è come il tempo in Talete di Mileto. Dice una
sua massima sapienziale: Il
tempo è il più sapiente, perché vede ogni cosa. Vedere,
far vedere, scoprire: potenza che si presentifica di volta in volta:
il tempo, infatti, non c’è in sé, eppure c’è in quanto prende
forma in ogni cosa, diviene la forma di ogni cosa; scrive il darsi
della cosa; c’è nel mostrarsi della cosa, direbbe Jean-Luc Nancy.
Estrema (apparente) umiltà ontologica, ma per un massimo di dignità
esistenziale. È «potenza attiva» altrettanto che «potenza
passiva», per mettere in paradosso due categorie ermeneutiche
dell’ontologia di Aristotele.
3.
Si
scrive per dare luogo al desiderio che è desiderio di tutto.
La
potenza di desiderare ogni cosa è la natura stessa del desiderio,
che, preso ontologicamente sul serio – dunque nella sua potenza
creativa –, è la potenza di divenire ogni cosa. Stuporosa
complicità di tempo e desiderio! Il desiderio è desiderio di tutto,
di divenire tutto. Sarà paradossale, eppure questa è la misura che
alimenta ogni grafia, lo stesso grafo inconscio che siamo, e ogni
autobiografia che si spinga fino alla domanda della sua valenza
filosofica: che in
verità noi accadiamo nell’immensità dell’immenso.
Ed è l’immenso del desiderio il nostro stesso segreto.
L’evento
[penso all’evento della scrittura, ma non solo] esige tutto il
tempo, il tempo di una presentificazione senza limite; solo così
tempo e desiderio convertuntur.
4.
Si
scrive per l’impossibilità della presentificazione del tutto, del
senza-limite.
Eppure,
l’io è in
potenza
la sua scrittura. Aristotele esalta la potenza
passiva
– la capacità di accogliere, ricevere, prendere forma. Non solo,
ma la potenza passiva gioca un ruolo attivo, di empatia,
nella relazione dell’io con la scrittura. La scrittura può, anzi,
divenire fin ingombrante e imbarazzante. Chi non sa che la scrittura
prende la mano!
Ci
vuole questa misura dell’immensità dell’immenso per
relativizzare l’arroganza
plebea
di un presenzialismo
promta
manu,
pronto uso, consumistico, per decostruire la boria spudorata di chi
ci sferza alla produzione e al consumo, invece che al pensiero e alla
sensibilità, ritenendo così di soddisfare l’immensità
del nostro desiderio, l’inestinguibile
sete di tempo.
Ma noi sappiamo che si
muore assetati di tempo.
Io so che morirò assetato di tempo nonostante la mia tensione alla
sapienza e malgrado la mia aspirazione alla saggezza di vita.
5.
Si
scrive per non morire assetati di tempo.
Io
so che il mio desiderio manca sempre il Tutto, so l’estrema
relatività del mio misero tempo.
Lasciatemi anche aggiungere che mi offende toccare con mano che il
mio misero tempo debba involvesi in un contesto che tende a tradurlo
in tempo meschino.
6.
Si
scrive per dare spazio all’intimità.
Se
questa è la misura, la macromisura dell’autobiografia, bene, non
agli antipodi, ma al suo interno, nel segreto della sua intimità,
l’autobiografia è un odore particolare, l’odore della persona
stessa che scrive. Forse qualcuno potrebbe sorridere, considerando
questo mio appello ad un senso, forse il meno blasonato dei sensi
aristotelici. Ma tant’è, le parole autobiografiche fanno sentire
l’evento straordinario dell’odore della persona. L’odore è
sempre un infra,
un inter,
un tra.
Le parole autobiografiche donano quel segreto di psiche che si gioca
tra
tempo e scrittura. Psiche non esiste in sé e per sé, ma riesce a
vivere solo nell’infra,
nell’intermezzo,
nel metaxy.
Psiche si gioca tra
tempo e scrittura, nel coraggio della scrittura di donarsi tempo e di
dedicarsi al tempo, di accettare la sfida di una presenza al presente
che muove dall’assenza e dalla mancanza, e che perciò è in grado
di arricchire il presente dell’ulteriorità.
Va
approfondita la relazione tra intimità e ulteriorità nel farsi
della scrittura autobiografica. La prima nota che presenterei a
determinare la relazione tra intimità e ulteriorità è questa: la
scrittura che si differisce nella relazione è il «tra»
dell’intimità. La scrittura che si differisce è la spaziatura
stessa dell’intimità. Scrivere è dare spazio all’intimità.
7.
Si
scrive per la malia di avventurarsi nell’intimissimus.
La
scrittura ha la potenza del differimento, la potenza di creare, così,
tra me e me l’intimità. L’autobiografia si muove tra
esperienza esistenziale e scrittura. Bisogna dire che quel che accade
nell’autoscrittura, nel rapporto intimo dell’io con se stesso e
dell’io con la scrittura, non è affatto la messa in rapporto di
due entità sostanziali, come due cose già date da una parte e
dall’altra; al contrario, quel che accade è il rapporto stesso in
quanto intimità. Sull’intimità
bisognerebbe intendersi. Qual è la natura sua propria dell’intimità?
Si tratta del superlativo contratto di intus,
intimissimus, intimus.
L’intimo è l’interno, il più interno tra me e la scrittura,
rispetto al quale non c’è un interno più lontano o più a fondo
per me. Questo è il luogo più prossimo e più arcano che cerco
nell’autoscrittura. Sembra sempre a portata di mano, ma rimane pure
impossibile, proprio nella sua diveniente prossimità. Perché il
fondo del mio essere, aimè, è senza fondo.
8.
Si
scrive perché il piacere stesso non basta mai.
Il
piacere dell’autoscrittura eccede il piacere stesso. Apre a un
rapporto con se stessi in cui l’identità si eccede, diventa al più
presunta, si riscopre sperimentale a se stessa. Ma attenzione: questo
eccesso in eccesso anche sul piacere –si
scrive proprio per questo eccesso in eccesso perfino sul piacere
– porta l’io al confine col dis-piacere, al limite di un
esaurimento di sé. Spingersi al proprio limite: un’ebbrezza che
esige il suo prezzo. Lì, sul bordo di sé, c’è una supplica,
forse un gemito, una preghiera a trattenersi, a ristare, a mettersi
di sentinella, a vigilare. Non è che il senso sia lì disponibile
alla presa, gratuitamente in uso. È una grazia complessa quella che
offre la scrittura. Esige una sospensione delle occupazioni e degli
interessi quotidiani. C’è un inter-esse,
un «tra» tra sé e sé, e l’inter-mezzo,
il «tra» è ciò che importa.
9.
Si
scrive per il semplice sentimento/stordimento di esistere a
prescindere.
Quando
ci si accinge alla scrittura, deve bastare il semplice
sentimento-stordente di “esistere”
a prescindere da tutto.
E non è di tutti, così come va il mondo.
Anche
perché l’autoscrittura dà la sensazione di un atto che non si
compie mai in forma perfetta. Il problema, quanto meno, è che, nel
contempo, io sopravvivo all’atto della scrittura, quindi, anche
solo perciò, di riflesso, la scrittura risulta incompiuta. L’atto
dell’autoscrittura si consuma senza concludersi, non fa risultato,
non fa successo – non nei suoi scopi –, non smette di cominciare
e non smette di finire. Questo ingenera una tensione che può
risultare formidabile. C’è un differirsi dell’io
nell’autoscrittura, una tensione che mette tutto l’io in reazione
con se stesso, in relazione alla scrittura di sé.
10.
Si
scrive per l’enigma del tocco che ci scrive, per questa carezza.
Nell’autoscrittura
l’io finisce per aderire al gesto, al senso di scrittura che lo
descrive, che lo circoscrive, che lo tocca e lo accarezza.
Proprio
come la zona erogena che, per lo più, esiste nel bacio, nella
carezza, nel gesto che la eccita, l’accende o la vivifica. E come
tutto il corpo può farsi erogeno, così l’io diviene tutti i gesti
indefinitamente ripresi e modulati che lo de-scrivono.
11.
Si
scrive perché non se ne può più di narcisismo e si anela alla
s-misura di sé.
L’autobiografia
è una misura spirituale senza fondo, un fondo senza fondo. Se io
avessi un fondo certo, fondato, compiuto non potrei neppure entrare
in rapporto.
Una
sostanza auto-fondata chiuderebbe il proprio essere nella sua propria
sostanza. Ma ecco il punto: l’intimo, in quanto intimissimo, è
sempre più a fondo del fondo; sfiora l’ex-timo.
L’intimo, direbbe Lacan, si ex-tima.
E l’extimità
è la partizione intima del proprio essere con l’altro, in specie
con la scrittura. L’intimità, nella sua partizione di scrittura,
nella sua extimità scritturale, è già ontologicamente diario
intimo.
Ma quale scrittura non è a suo modo un diario? Quanto più io sono
intimo a me stesso, tanto più riscopro il mio stesso corpo come
luogo di partizione di me e dell’altro.
Nel
possibile godimento della scrittura, c’è dell’impossibile.
Questo impossibile è reso possibile dall’intimità: io arretro in
me stesso e misuro l’impossibilità, cioè la incommensurabilità
di questo mio farmi intimo, essendo la mia una approssimazione a un
non-fondo. Anzi, il mio farmi intimo concrea il luogo dell’altro. È
nel rapporto con l’altro che sono che si s-misura la misura della
mia intimità, perché devo pur arrivare a toccare con mano che senza
l’altro non c’è intimità.
12.
Si
scrive per il godimento-enigma della relazione intimità-extimità.
Ma
ancora, perché il mio io possa godere nell’atto della scrittura,
bisogna che non si depositi in una sostanza, in uno status compiuto,
in una pretesa ipseità. Bisognerebbe che il suo godimento fosse il
suo atto stesso di scrittura. La vita gode della scrittura come di un
suo atto elettivo di grazia, sintomatico di apertura e dilatazione.
Si scrive, infatti, perché scrivere è relazionare, camminare,
annusare. Le parole hanno un fiuto, sono un fiuto. Nella scrittura la
vita gode della possibilità dell’impossibile.
13.
Si
scrive per saggiare l’inconfondersi di potenza passiva e potenza
attiva, per questo libero gioco del proprio essere.
Un
godimento speciale della vita nella scrittura sta in questo: che
potenza passiva e potenza attiva nella scrittura si inconfondono. Ma
non è facile il pensiero della scrittura come della possibilità
dell’impossibile. Bene, proverei a pensare, allora, che affermare
che l’io gode di sé nella scrittura significa dire che l’io gode
dell’altro da sé che pur l’io contiene e che, tuttavia,
nell’atto della scrittura, libera. Perciò si deve pensare che
l’altro è il possibile dell’io, e questo significa che nella
scrittura l’io libera la potenza dell’impossibile. Potenza che
gli è intima come la più profonda intimità, perché non va mai
sottovalutato, credente o no, che Agostino, al fondo del proprio io,
non incontra un fantomatico io sostanziale, no!, ma l’assolutamente
altro, Dio. La scrittura, infatti, come possibilità dell’io, è
l’atto stesso del differirsi dell’io; è l’atto della
partizione dell’io nell’altro da sé; è un atto del suo
differenziarsi.
14.
Si
scrive per saggiare il sacro godimento, che sta agli antipodi dei
meccanismi di sublimazione.
C’è
del godimento in questa relazione sorgiva, un massimo di godimento e
di creatività. Si tratta di una relazione che sarebbe erroneo e
superficiale giudicare a guisa di sublimazione.
All’opposto è una realissima relazione in atto. È un fiore
all’occhiello dell’intimità che si coniuga nei suoi vari nomi,
nelle sue molteplici nominazioni che chiamiamo sentimenti, pensieri,
emozioni, gesti, espressioni, presenze, ecc.
Nella
scrittura come atto di partizione dell’io c’è del sacro. Chi
scrive entra in relazione con il sacro e saggia le valenze sacre
della differenza e della partizione. Delicatissima e preziosa è
infatti la relazione potenziale con l’altro che sono. Un nonnulla
può dissolvere il miraggio, l’a-letheia,
il non-nascondimento, il venire in presenza dell’adveniente,
dell’altro. E, allora, vorrei dire che, in questo atto di
partizione e di differenziazione, c’è godimento, un sacro
godimento. Nessuno ha titolo di giudizio, a questo livello, che è
pre-estetico, pre-letterario, pre-disciplinare. Perciò si scrive,
per saggiare questo sacro godimento. E bisogna provare a scrivere il
proprio fondo per rendersene conto. È patetico il solo pensiero che
uno possa dire: «Ecco, questo è il mio fondo ultimo». Lo si
ascolterebbe con uno stupore unito a un sorriso malcelato di ironia,
perché per quanto profondo, quel fondo non sarà né il fondo né il
fondamento di quella vita, ma solo ciò che in quel presente si
ritiene tale. Sarà sempre solo un momento del pro-fondamento del suo
essere esistenziale. Dobbiamo sapere che ogni nostra enunciazione di
fondamento, quanto meno post
mortem,
suonerebbe certo diversa. Come tenere conto del fondo oscuro,
inenarrabile e fecondissimo della morte, dell’oltre,
dell’ulteriorità? Noi che pensiamo e viviamo in presenza di questo
s-fondamento,
di questo senza-fondo,
di questo oltrepassamento, di questa reciproca e congenita
ulteriorità di vita e scrittura, non potremmo non sorridere di
quella pretesa.
15.
Si
scrive per ridere di ogni narcisismo.
E
il nostro sorriso sarà etrusco: occhi serissimi, quasi impietriti e
bocca ilare, ridente di ogni presente che sarà per noi tanto più
interlocutorio quanto più tragicamente in-fondato, gratuito, donato.
Questo è il paradossale dono del tempo della scrittura.
Vi
leggo l’epilogo Fra
amici
di Umano
troppo umano,
Scrive Nietzsche:
È
bello insieme tacere, / più bello insieme ridere, - / sotto il
serico manto celeste / appoggiati al musco e al faggio / ridere con
gli amici amabilmente forte / e mostrarsi i bianchi denti.//
Se
ho fatto bene, vogliamo tacere; se ho fatto male – vogliamo ridere
/ e far sempre peggio, / fare peggio, ridere peggio, / finché
scenderemo nella fossa.
Amici!
Sì! Deve accadere? / Amen! E arrivederci!
Qui,
la scrittura autobiografica è agli antipodi del narcisismo, nella
sua capacità di essere l’esperienza dell’identità come
differenza e come evento. Le parole, il pennino, il pensiero
camminano nelle vie della mancanza, e ogni passo avanza affidandosi
all’altro passo, lasciando incedere l’altro.
Nel
coraggio della scrittura si può prendere tempo, prendersi il tempo
per entrare nelle cripte dell’esistenza, tanto più intime quanto
più capaci di resa nell’aperto, nell’ulteriorità, nella sublime
esteriorità della scrittura, nella sacra superficie che è la
scrittura. Deleuze parla dell’arte delle superfici come dell’arte
più ardua. Allora il tempo è questo suo ridispiegarsi portentoso,
la potenza di donare il nome all’esperienza, alla vita, ai
sentimenti.
Si
scrive per resistere, e resistenza è essenzialmente narrazione
bene-dicente, che ricerca il senso delle cose e il nome dei
sentimenti.
16.
Si
scrive per il tocco del «senza» del tempo e del «senza» della
scrittura
Come
il tempo si dà sempre senza
la totalità del tempo, come il desiderio è irriducibile ai singoli
desideri e si dà senza la loro stessa somma, perché il resto del
desiderio è sempre la più parte, così dobbiamo pensare la
scrittura in genere. La scrittura è una fôrma
(in
senso aristotelico), un darsi essenziale del tempo. Ma poi come con
ogni essenza, essenziali divengono gli accidentes
per
la sua concretizzazione.
La
scrittura è sempre “senza”. E non è solo un fenomeno del tempo,
ma ne è una condizione di espressione e di manifestatività. La
scrittura è un
modo
essenziale di venire all’essere del tempo, ma proprio perciò,
poiché il tempo si dà riservandosi e sottraendosi, la scrittura è
sempre “senza”
il
tempo. Diciamolo, nessuno e nulla possiede il tempo, nessuno e nulla
possiede la scrittura, neppure lo scrittore.
Tuttavia,
la scrittura è un
differenziale del tempo.
Il segreto e l’enigma della
differenza della scrittura è nell’essenza stessa del tempo, il
quale consiste nel portare
tutto nell’altro da sé.
La scrittura nasce già nell’altro da sé quando viene scritta e,
ancor più, se possibile, quando viene letta. Questo, per Derrida, ha
una portata ontologica. Non c’è Medesimo che non si differisca nel
tempo, non c’è identità che tenga – che tenga ferma l’identità
in quanto identità. D’altra parte, come nascerebbe l’identico se
non differenziandosi dall’altro? Per Derrida, la differenza precede
l’identità, la quale si determina come tale solo differenziandosi
dal diverso. Le battaglie identitarie, le marcature di spazio e di
cultura, le inscrizioni nelle radici originarie, le crociate
confessionali scontano tutte una insolenza dogmatica inaudita,
perché, in verità, nulla nel tempo rimane nel medesimo tempo e,
dunque, nulla di medesimo via via permane mai nel medesimo.
Il
dono del tempo è di non essere mai lo stesso. Il dono del tempo
della scrittura è la sua illimitata
disseminazione,
la gamma di diversità di letture e di interpretazioni a cui la
scrittura è affidata. Come il tempo in sé, così la scrittura in sé
è pas-de-sens,
un
nulla di senso, ma
nel suo donarsi è per un
massimo di passaggi di senso,
e anche questo è un modo di dire l’incredibile paradosso della
scrittura.
17.
Si
scrive perché la scrittura non finisce di maturare.
Perché
oggi la filosofia tanto insiste sull’aporeticità dell’identità?
Perché sulla battaglia identitaria tanti politici rampanti sferzano
e aizzano le masse? Eppure, la identità è sempre aporetica ed è
tanto più vitale quanto più lo sa e ne tiene conto. Erigere il filo
spinato attorno all’identità ha poi effetti paralizzanti, ingessa
le articolazioni del pensiero e dell’anima e getta nella
depressione. Viviamo nella contaminazione e dobbiamo imparare a
sopravvivervi, e questa è un’arte da acquisire, un’arte, direi,
della pace.
L’autobiografia
sboccia come arte della pace nella sua potenza di «maturare
dopo il raccolto».
Nachreifen:
maturare dopo il raccolto. L’espressione è di Walter Benjamin e
s’attaglia specificamente alle opere d’arte e alla poetica, per
cui l’opera ha diritto a continuare la sua maturazione. Questo è
pure il nocciolo della teoria della disseminazione di Derrida, per
cui le opere non finiscono di maturare. L’autobiografia non è
frutto perfetto appena scritto, ma ha diritto a continuare la sua
maturazione. Ecco perché si scrive: perché l’opera non finisce di
maturare. Non esiste una lettura definitiva di un’opera. Neppure
l’autore deve pensare di chiudere la partita. Vale per
un’autobiografia, come per uno spartito musicale. E ci sono
interpreti che articolano uno spartito più del loro stesso autore.
L’arte della pace è implicita nella potenza attiva e passiva
dell’opera, in questa intrinseca relazione democratica interna
all’opera. Ma questo può essere se la singolarità accetta la sua
pluralità essenziale. Lì ci sarà sempre del lavoro da fare.
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