Prima
lettura
(Paul
Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli)
La
bellezza, che forse non bisogna separare dall'arte, non riguarda
tanto l'oggetto quanto
la rappresentazione. In questo, e in nessun altro modo, l'arte supera
il brutto senza
sfuggirlo...
Si
abbandona il mondo di qua e si costruisce in un'altra regione alla
quale si può pienamente assentire. Astrazione. Il freddo
romanticismo di questo stile senza pathos è
straordinario. Quanto più spaventoso questo mondo (com'è appunto
oggi) tanto più
astratta l'arte. Un mondo felice, invece, genera un'arte volta all'al
di qua...
La
creazione vive come genesi sotto la superficie visibile dell'opera.
Tutti coloro che coltivano
lo spirito sono capaci di percorrere a ritroso il processo della
creazione, soltanto
i creatori lo percorrono in avanti...
E
ogni figurazione, ogni combinazione avrà la sua particolare
espressione costruttiva, ogni
figura il suo volto, la sua fisionomia. Le figure oggettive ci
guardano, ilari e severe, più o meno tese, consolatrici o
spaventevoli, sofferenti o sorridenti.
Esse
ci guardano in tutte le antitesi della dimensione
psichico-fisionomica, la cui gamma può estendersi fino al tragico o
al comico...
Chi
mai non vorrebbe, come artista, dimorare là, dove l'organo centrale
d'ogni moto temporale
e spaziale — si chiami esso cervello o cuore della creazione —
determina
tutte
le funzioni? Nel grembo della natura, nel fondo primordiale della
creazione, dove
è custodita la chiave segreta del tutto? Ma non a tutti è dato
giungervi, e ognuno deve muoversi nella direzione segnata dal palpito
del suo cuore. Cosi i nostri antipodi di ieri, gli impressionisti,
avevano pienamente ragione di stabilire la dimora tra i getti delle
radici, nel sottobosco delle quotidiane apparenze. Ma dal battito del
nostro cuore, noi siamo sospinti più in giù, verso il fondo,
l'origine. Ciò che da questo impulso nasce — si chiami come si
vuole: sogno, idea, fantasia — è da prendere in seria
considerazione solo se si unisca agli adeguati mezzi figurativi, in
una sintesi integrale. Allora quelle stranezze divengono realtà —
realtà dell'arte che rendono l'esistenza un po' più ampia di quanto
comunemente non appaia: che esse non riproducono soltanto, con
maggiore o minore vivacità, ciò che si è visto, ma rendono
percepibili occulte visioni...
Che
ne è oggi della rappresentazione? Distinguiamo la rappresentazione
dalla immagine. L'immagine dà luogo a una molteplicità di
rappresentazioni, letture, interpretazioni. Dunque, l'immagine cosa
rappresenta? A cosa rimanda? Il suo rimandare è la questione
centrale. Il rimando è il contenuto di verità dell'opera. Se
rimandano a nulla, come nell'arte virtuale, allora le immagini non
rappresentano. Se la relazione è il luogo che costituisce le cose,
senza di essa le cose non sono più, si rimane senza mondo. Il
computer è apparentemente nel mondo, ma un mondo virtuale, che
sostituisce quello reale con immagini iperreali che non rappresentano
qualcosa. Nel mondo virtuale l'immagine è priva di correlativo
oggettivo è artificiale, fabbricata. Adorno nel Novecento per la
prima volta parla della rappresentazione produttiva basata sulla
somiglianza, cioè sulla corrispondenza tra immagine e realtà. Al
punto che l'artista rappresenta la realtà così bene che noi
diciamo, sembra vero. In quel caso la natura dell'opera viene coperta
dal significato, dunque, l'opera nasconde la rappresentazione. La
rappresentazione produttiva parte con Flaubert. Flaubert vuole
scrivere un libro senza soggetto. Sarà poi tutta la letteratura del
novecento a tentare di compiere questo tragitto. Cezanne è nella
pittura l'autore che distrugge il soggetto, cioè, è interessato non
alla storia, alla narrazione, al punto di vista, è, invece,
assolutamente aderente all'oggetto. Cioè al percetto, al correlativo
oggettivo. Potremmo dividere la rappresentazione in riproduttiva,
produttiva e infine testimoniale. Il discorso tra riproduzione e
produzione coinvolge naturalmente il linguaggio. Linguaggio e
immagine possono o meno coincidere. Si tratta in fondo di due
posizioni che fanno riferimento nella storia della filosofia al
realismo e al nominalismo. Nel primo caso la lingua coincide con
l'immagine e con la realtà, nel secondo la lingua è convenzionale,
almeno per alcune sue parti, perciò può coincidere nei nomi, ma il
resto è il risultato di abitudini e convenzioni. Nella
corrispondenza tra arte e realtà è implicato un modello, un
prototipo, un archetipo. Ad esempio, il primo modello ontologico e
soggettivo sta nell'intenzione dell'artista. L'intenzione precede il
prodotto. Wittgenstein però nelle ricerche logiche mette in crisi
questa costruzione. Nega l'esistenza di archetipi soggettivi o
oggettivi. Dunque, per lui non esiste un modello precedente. L'opera
non può essere riferita a qualcosa di esterno. Adorno dice che
l'immagine è una mimesi di se stessa. Somiglia, cioè, solo a se
stessa. Cosa produce allora l'immagine e fa emergere dal suo
interno? Questa è la produttività dell'opera. Corrispondenza molto
stretta tra riproduzione e produzione. Cosa fa l'arte? Con la
riproduzione rappresenta il visibile, con la produzione invece lo
produce e lo rende visibile. Questo rapporto era già delineato tra
Mosè e Aronne. Inizia così la storia della rappresentazione. Il Dio
che parla con Mosè è irrappresentabile. Aronne, invece, dà al
popolo la possibilità di rappresentarsi Dio per adorarlo, costruisce
davanti l'altare l'immagine del vitello d'oro. Questa è la
concezione riproduttiva. L'immagine è tutt'uno con il rappresentato.
Adorare il totem dà luogo al potere delle immagini. Nietzsche
sviluppa entrambe le rappresentazioni. Nel capitolo ottavo della
nascita della tragedia gli uomini che vedono Dioniso sono trasformati
in satiri. Questa incarnazione è quella di Aronne. Ma Nietzsche dice
che la tragedia nasce dal rapporto tra Dioniso e Apollo.
Inseparabili, perché Dioniso è l'irrappresentabile e Apollo cerca
di dargli forma con la parola. Questa è la dimensione produttiva.
Qualcosa si offre e qualcosa rimane irrappresentabile. I padri della
chiesa difendono l'icona dagli iconoclasti perché Dio si fa uomo e
Cristo è icona di Dio. Pare un rapporto rovesciato confronto al
platonismo. Il modello, l'idea, non sono più da cercare
nell'iperuranio ma in terra, qui troviamo l'icona che vi rinvia.
Dunque l'icona non parla del padre ma del figlio, e se la veneriamo è
perché nell'immagine, attraverso il figlio, vediamo il rimando al
padre, cioè Dio. Adorno nella Teoria Estetica dice che
l'avanguardia fa confusione tra arte e realtà. Per lui l'arte
moderna deve essere autonoma dalla realtà. Deve implicare un
autonomia, seppure non totale. Non deve, cioè, riprodurre la realtà,
ma indicarla. Così l'arte è cosa tra le cose, non è più assoluta,
non c'è più essenza da riprodurre, assoluto da mostrare. Non ci
sono più né l'assoluto né la Bellezza con la b maiuscola. Anzi,
ormai l'arte è sempre più fugace, caduca, effimera. Tuttavia la
distingue dalle altre cose la forma. Grazie alla forma parla del
mondo. Produce così dal suo interno, con la forma, una dimensione di
verità. Cosa è la forma? La forma per Adorno è contenuto
sedimentato. Non c'è differenza tra forma e contenuto, ma neanche
identità totale. Produce la forma il suo contenuto sedimentandolo.
La rappresentazione come testimonianza è la dimensione che Adorno
attribuisce ad alcuni artisti come Kafka e Becket. Non c'è, nelle
opere di questi autori, rappresentazione del mondo contemporaneo,
invece se ne dà testimonianza. La testimonianza non si può
riprodurre e neanche produrre, si può solo mostrare. E si può
mostrare solo con la forma. Cosa testimonia in questo caso la
rappresentazione? Testimonia ciò che è indicibile. Non c'è
possibilità di capire il senso di Auschwitz. Per questo nel
Novecento la dimensione artistica, cioè estetica, incapsula al suo
interno la dimensione etica. Nell'opera d'arte non c'è intenzione,
progettualità, l'autore può solo dire che ha fatto qualcosa senza
precisa volontà. Per questo motivo il contenuto di verità
dell'opera all'autore non è accessibile più che al lettore, essa si
dà in entrambi come opinione. Il contenuto di verità è indicato da
Benjamin quando parla di Goethe, l'autore non sa quale significato
assumerà nel tempo la sua opera. L'opera d'arte va al di là delle
intenzioni e stupisce lo stesso autore. Insomma, l'opera non
appartiene all'ordine della prevedibilità. Paul Klee da bimbo spesso
era portato dal nonno in osteria, qui appoggiava al tavolo di marmo
la testa un poco annoiato, allora vedeva nelle vene del marmo
materializzare delle linee che si costituivano in figure, disegni.
Questa esperienza, ampliata all'inverosimile, costituisce la sua
arte. Continuava a vedere materializzarsi figure che per gli altri
erano invisibili. Il tempo della trama si struttura in passato,
presente e futuro. Mettere in questione l'intenzione vuole dire
mettere in questione la linearità del tempo, cioè la prevedibilità.
Allora l'opera non si esaurisce nel vedere ma continua a svelarsi.
Ciò che costituisce l'opera è il sensibile, è ciò che si vede in
un quadro, è quello che si ascolta in una poesia. Ma nel sensibile
c'è qualcosa che non è sensibile. Qualcosa che non è visibile nel
visibile. Anche nella parola c'è qualcosa che è inudibile. Questo
invisibile, questo inudibile, questo insensibile, è il segreto
silenzioso che fa di un quadro o di una poesia un'opera d'arte. Il
rapporto tra visibile e intellegibile nella cultura occidentale è
dato dalla loro separazione. Dove c'è l'intellegibile c'è
l'assoluto, l'universale. Il tempo fa paura perché la morte è la
nostra condizione. Se non conta il mondo sensibile ma quello delle
idee, come l'iperuranio per Platone o nel cristianesimo l'aldilà,
allora alla fine ci attende il senso. Ma così l'arte diventa con la
sua bellezza solo una forma consolatoria. Alla fine si capirà il
senso di tutto. Dopo la morte ci sarà la vita vera. Questa è la
concezione lineare del tempo. Concezione paolina della fine dei
tempi. La fine che ci consola. Nell'arte e nella filosofia moderne la
fine non c'è più. La consolazione della bellezza viene meno. Il
telos, il senso finale non c'è più. L'Apocalisse si presenta come
la fine dei tempi, cioè il punto in cui tutto assume senso. Il
massimo teorico di questa concezione è Hegel con l'Assoluto. Lo
Spirito Assoluto che scende in terra. Se pensiamo all'Ulisse di Joyce
e lo confrontiamo a quello di Omero, il secondo viaggia venti anni
per tornare all'inizio, tutta la storia è tesa verso il ritorno. Si
parte per riconquistare le proprie sponde. Il viaggio costituisce il
senso che alla fine svelerà a Ulisse il vero senso della sua vita,
cioè, come sostiene Pietro M. Toesca, meglio la pace che la vita in
guerra. Per l'Ulisse di Joyce le 800 pagine, invece, sono il racconto
di una giornata qualunque. Sensibile che implica qualcosa di non
sensibile, visibile che implica l'invisibile, udibile che implica
l'inudibile. Nietzsche inaugura questo pensiero che fonda la
modernità. Nella concezione precedente il sensibile è meno
importante dell'intellegibile. Sarà Nietzsche a rovesciare questa
concezione. Joyce dice, chiudi gli occhi e vedrai. Non fidarti della
visione retinica, non è sufficiente, questa dà solo il visibile ma
esso non è tutto, per cogliere ciò che stupisce del visibile
dobbiamo andare oltre. A chi dicono le linee e le parole delle opere
il loro contenuto? Non solo agli occhi ma a una doppia vista, quella
che vede ma è anche vista, cioè l'altro della cosa, così lo
chiama Wittgenstein. Vediamo delle righe poi improvvisamente
compare un mondo che i nostri compagni non vedono, come facciamo a
farglielo vedere se per loro continuano a essere linee? D'un colpo
appare l'altro, ed è imprevedibile quando e se compare. L'altro del
visibile, non dal visibile, cioè l'invisibile. Cioè l'altro non è
l'invisibile ma è dentro al visibile. Invisibile nel visibile che
non è del tutto visibile. Il silenzio dell'arte non è il silenzio
quando non ci sono parole ma è il silenzio che cogliamo nelle
parole. E non c'è arte se non c'è silenzio. Ridurre la poesia al
sensibile vuol dire togliere la sua dimensione che è invisibile. Per
questo non si può mai comprendere in modo definitivo, c'è sempre
una comprensione parziale dell'opera. Il voyeur, il guardone, vede
l'oggetto il voyant, il veggente, vede l'altro, l'invisibile nel
visibile. Vede cioè qualcosa che non si lascia ridurre a oggetto.
Vede ciò che mentre guardiamo ci guarda. Per questo non si può
ritrarre mai definitivamente una persona.
Seconda
lettura
(Paul
Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli)
Se insisto su questo, è per evitare il sorgere del malinteso per cui l'opera d'arte sarebbe mera forma. Ma ancor di più devo insistere su questo: che la conoscenza scientifica della natura, di piante e animali, della terra e della sua storia, delle stelle, a nulla ci serve, se non siamo provveduti di tutto l'armamentario per la loro rappresentazione; che la più ingegnosa interpretazione dei loro rapporti nell'universo a nulla serve, quando ancora una volta non si sia provvisti di forme; che la mente più profonda, lo spirito più sottile a nulla serve, quando non s'abbiano a portata di mano
le forme convenienti...
Ma
c'è un fenomeno che sta al di sopra di tutte le cose colorate,
l'astrazione d'ogni applicazione,
elaborazione e combinazione di colori, la pura astrazione cromatica: questo
fenomeno è l'arcobaleno. È significativo che questo caso singolare
d'una scala di puri colori non appartenga del tutto all'al di qua, ma
al regno intermedio terrestre-cosmico dell'atmosfera; di conseguenza
esso possiede un certo grado di perfezione, ma non il massimo,
giacché appartiene all'aldilà solo a mezzo. Anche qui però la
nostra capacità creativa ci soccorre a superare la manchevolezza del
fenomeno permettendoci perlomeno una sintesi della perfezione propria
dell'aldilà. Noi supponiamo che quanto ci si manifesta solo in parte
e come apparenza imperfetta sia,
in qualche luogo, senza imperfezioni; il nostro istinto artistico
deve quindi aiutarci a trovare la forma di quell'essere perfetto...
Possiamo
dire in sintesi: è stato reso visibile qualcosa che, senza lo sforzo
di renderlo visibile,
non si sarebbe potuto conoscere. Senza quello sforzo si possono si
vedere delle
cose, ma non conoscerne con precisione l'essenza. Nell'ambito
dell'arte bisogna ben
distinguere lo scopo del rendere visibile: se si tratta cioè di
notar cose viste per ricordarsele,
o di manifestare cose invisibili. Se avvertiremo questa differenza e
la terremo
ben ferma, allora potremo dire d'essere arrivati al punto principale
della
figurazione
artistica...
L'espressione
è allora ciò che conta. Per mostrare l'espressione si deve essere
un grande artista, per disegnare un naso no. Provate a esprimere
allegria. Se siamo in grado di farlo percepiamo qualcosa che va al di
là dell'oggetto. L'invisibile è la forza, la vis, la vita del
visibile. Holderlin dice il resto lo fondano i poeti, il resto è ciò
che è libero dalla forma comunicativa. Le parole poetiche non
comunicano qualcosa, fanno sentire il silenzio che le anima. Adorno
sostiene che prima c'è il brutto poi c'è il bello. Dunque la
bellezza non è eterna. Nel Novecento gli artisti per amore della
bellezza vi hanno rinunciato. La bellezza e la creazione sono
violenti, sono sofferenza e dolore. Questo dice Nietzsche.
Costituiscono il passaggio dall'uno al due. Prima il brutto poi il
bello. Prima l'uno poi il due. Prima l'unità poi la molteplicità.
Lo strappo di Cronos da Urano. La nascita delle cose, lo sperma che
diviene oceano, Venere che nasce dal mare. Insomma la vita è
crudele, basta dire che alla fine si muore. Per renderla sopportabile
i Greci inventano la bellezza. La bellezza è costruita per vivere in
modo accettabile. La bellezza ha a che fare con la verità,
espressione di questa rivelazione è l'arte Greca. Le sculture nel 4°
secolo A.C. rappresentano un singolare, la statua, che diviene
universale, assoluto. Equilibrio perfetto tra singolare e universale.
Questa è la bellezza. Nel cristianesimo invece ci sarà una
eccedenza. Dio si fa uomo in Cristo, che è allo stesso tempo uomo e
anche Dio, eccedendo la sua natura umana. Il
romanticismo aspira a questa eccedenza, a questo assoluto. Ma questo
assoluto copre la vita. Dioniso vi è velato ancora di più.
Apollo così viene strappato da Dioniso, logos e pathos
si dividono. Senso e vita vanno in direzioni opposte. Chi conta di
più? Conta di più pathos, l'esistenza, la vita. Ma Dioniso
si sottrae al senso. Per quante maschere Apollo inventi, Dioniso vi
sfugge. Però, possiamo dire Dioniso solo perché Apollo lo nomina,
cioè, ciò che viene dopo è prima, ciò che è prima, lo è perché
viene nominato da chi viene dopo. Stefan George dice: non c'è cosa
senza parola. Cosa vuol dire? Che noi vediamo le cose solo perché le
nominiamo. Se non abbiamo parole per nominarle non le vediamo.
Derrida scrive che tutto è linguaggio. Tuttavia l'invisibile non si
lascia ridurre alla visibilità. La vera grande arte per Nietzsche è
la tragedia, più dell'epica omerica o delle statue di Prassitele. Lo
è perché il rapporto tra Dioniso e Apollo è più equilibrato.
L'arte è il velo che copre la vita rendendola accettabile. L'arte
classica, con la bellezza, ha trovato il modo per coprire Dioniso,
cioè per liberarci dal pathos e dalla sofferenza. Al
contrario la tragedia avvicina a Dioniso, è il perfetto equilibrio
tra Dioniso e Apollo. La tragedia svela il dionisiaco sotto immagini
apollinee. Fine dell'assoluto, inizio della molteplicità. Frammenti,
non sistemi, aforismi e eliminare tutto ciò che pretende di redimere
l'infinito, cioè l'irriducibile, all'unità e alla totalità. Il
tempo lineare è sostituito da quello circolare. Tra visibile e
invisibile sta l'enigma dell'arte, non nella bellezza. Qui, tra
visibile e invisibile, il logos è impotente. Lessing dice che è più
importante la ricerca che la verità. Nel cerchio ogni dato ha senso,
non bisogna aspettare la fine. Zarathustra sale alla vetta con il
nano sulle spalle, il nano è la gravità, è il peso che ti spinge a
tornare sui tuoi passi, ma di fronte alla porta carraia Zarathustra
fa scendere il nano, allora parlano. La porta carraia ha due strade
una verso il futuro e una verso il passato, entrambe infinite. Ma se
l'una e l'altra sono infinite allora tutto ciò che è nel passato è
anche ciò che sarà nel futuro sono uguali. Tutto è già accaduto.
Ma questa è una semplificazione che dà il nano, cioè il logos.
Più avanti Zarathustra incontra il pastore con ha una serpe in bocca
che lo soffoca, Zarathustra tira e cerca di farla uscire, ma poi dice
al pastore mordila. Lui lo fa e le stacca la testa, a questo punto il
pastore danza e balla. Cioè, tutto è già lì, nel senso che le
cose hanno subito, nell'attimo, già tutte le chance, esse sono piene
di tutte le possibilità. Non è più necessario aspettare la fine
per dare senso, perché esso è già lì. Visibile e invisibile
insieme. Nello stesso istante, allo stesso tempo. Pensate al
linguaggio. Stiamo per parlare ma ancora non abbiamo detto nulla,
tutte le parole sono lì, disponibili, finché non parliamo, allora
quelle espresse diventano udibili, prendono senso, ma solo perché
tutte le altre, inudibili, ne costituiscono lo sfondo. Da
quell'invisibile compare la frase, prima di agire la parola avevamo
tutte le chance. Anche quella di esprimere un opera d'arte. Insomma,
non c'è paradiso o assoluto, il dato è l'unità del senso. Sia di
ciò che si è dato, sia di ciò che non si è dato, non si deve più
attendere perché abbia senso, il dato con la parola è già carico
di tutte le possibilità. Il passaggio dal teoretico al pratico,
l'invito a mordere la testa del serpente, cioè, a decidere, è la
questione etica, dunque politica.
Terza lettura
Giuseppe
Di Giacomo, Icona e arte astratta
Così
Wittgenstein scrive nelle Ricerche
filosofiche: «E chi dipinge non deve
dipingere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere
qualcosa di reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere:
l’immagine di un uomo (per esempio), o l’uomo che l’immagine
rappresenta?» Tuttavia Wittgenstein porta il problema alle estreme
conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con un’immagine,
dobbiamo tener conto se la paragoniamo con un ritratto
(un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i
paragoni hanno senso. Se guardo un quadro di genere, esso mi ‘dice’
qualcosa, anche se io non credo (mi figuro) neppure per un momento
che gli uomini che vedo rappresentati in esso esistano realmente, o
che uomini in carne e ossa si siano davvero trovati in questa
situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Allora, che
cosa mi dice?» La risposta di
Wittgenstein suona: «‘L’immagine mi dice se stessa’ vorrei
dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua propria
struttura, nelle sue forme
e colori» Ponendo la questione in tali termini tuttavia Wittgenstein
non intende affatto contrapporre un’immagine intesa come
‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare
l’attenzione dell’osservatore esclusivamente su ciò che essa
rappresenta, e un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il
cui fine sarebbe quello di presentare la «sua propria struttura» e
le «sue forme e colori». Del resto, continua Wittgenstein nello
stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il dire: ‘Il tema
musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein
queste due modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e
immagine intesa come fine, sono tra loro connesse, tanto da formare
un unico concetto di ‘immagine’. Che il problema vada inteso e
approfondito in questi termini, lo chiarisce lo stesso Wittgenstein,
affrontando in alcuni paragrafi successivi la questione relativa al
«comprendere una proposizione»: «Noi parliamo del comprendere una
proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da un’altra
che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere
sostituita da nessun’altra. (Non più di quanto un tema musicale
possa venir sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della
proposizione è qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel
secondo, qualcosa che soltanto queste parole, in queste posizioni,
possono esprimere. (Comprendere una poesia)» E subito dopo aggiunge:
«Dunque qui ‘comprendere’ ha due significati differenti? –
Preferisco dire che questi modi d’uso di ‘comprendere’ formano
il suo significato, il mio concetto
del comprendere» Wittgenstein
sottolinea in questo modo che i due tipi di comprensione – quella
che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il pensiero
espresso dalla proposizione può essere riformulato in modi diversi,
rimanendo lo stesso, e quella che potremmo definire ‘estetica’,
caratterizzata invece dal fatto che il suo ‘tema’ non può essere
riformulato in altro modo, come esemplifica il caso del ‘tema
musicale’ o della ‘poesia’ – sono imprescindibilmente
connessi tra loro in un concetto unitario. È la stessa
interconnessione che Wittgenstein aveva rilevato in relazione
all’immagine. Il fatto è che quel particolare tipo di immagine che
l’opera d’arte costituisce può rimandare all’altro da sé,
soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se stessa, ‘dice se
stessa’; può essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in
quanto è ‘presentazione’ di se stessa. Di conseguenza, ciò che
nell’opera viene rappresentato riceve la sua ‘unicità’, la sua
‘specificità’, è insomma proprio ‘questo’, grazie al fatto
che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’, secondo le sue ‘linee
e colori’. Così questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi deve
essere visto come qualcosa che, seppure da sempre presente sotto i
nostri occhi, appare come se lo vedessimo per la prima volta e,
proprio per questo, non può che procurarci stupore e meraviglia.
Scrive a questo proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa
ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procurano
piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un
fatto fuori dell’ordinario. (‘Non pensare che sia cosa ovvia’ –
questo vuol dire: Meravigliatene, come fai per le altre cose che ti
procurano turbamento [...])»
Heidegger
ritiene che nell'ultimo Nietzsche due sono gli argomenti principali,
il primo è la volontà di potenza, che è poi la vita stessa, il
secondo è l'eterno ritorno. Sull'eterno ritorno di solito si
istituisce un rapporto con Eraclito privilegiando il divenire della
temporalità. Secondo Heidegger non accetta fino in fondo Nietzsche
l'affermazione eraclitea per cui tutto diviene. Ora, è vero che
tutto diviene, ma anche la sua affermazione deve divenire, dunque la
tesi è auto-contraddittoria, non può incontrare l'essere. Per
questo Nietzsche non la porta alle estreme conseguenze, cioè non la
assolutizza, perché essa eliminerebbe qualsiasi verità, nulla ci
sarebbe più di fermo. Invece Nietzsche vuole coniugare il rapporto
tra essere e divenire. Nietzsche assume questa posizione rispetto
all'ente nel suo insieme, per cui anche il soggetto in quanto ente vi
rientra, dunque il soggetto vi è implicato. Tra il nano e
Zarathustra si gioca la partita del soggetto interno ed esterno,
cioè implicato o meno. Eterno ritorno che non esclude l'essere,
essere che non esclude il divenire. Insomma, cerca Nietzsche la
formula di un divenire che non escluda l'essere. Per il nano soggetto
e oggetto sono divisi, il soggetto è fuori dall'ente e ne vede
scorrere le acque, che poi tornano di nuovo daccapo. Invece per
Zarathustra l'ente è dentro le acque e scorre con loro, esse non
tornano sempre uguali, altrimenti che nell'attimo, lì sono presenti
tutte le possibilità, ma queste vengono spezzate dal morso, cioè
dalla decisione, poi, dopo non torneranno più uguali, il cerchio
allora è aperto, diviene una spirale. Per risolvere questa
contraddizione Nietzsche deve usare un linguaggio che non poteva
essere logico metafisico, infatti si rivolge alla poesia. Nella
dottrina dell'eterno ritorno la questione da universale diviene
singolare, l'eraclitismo diviene particolare, così il divenire
implica la coesistenza con l'essere. “Io vi insegno la redenzione
dal flusso perenne” dirà Nietzsche. Nel flusso eracliteo le acque
tornano sempre uguali, questo è il punto, l'uguale è più forte del
divenire. No, pensa Nietzsche, non è più forte, ma è il loro
equilibrio. Noi non possiamo scendere nello stesso fiume e bagnarci
nelle stesse acque dice Eraclito, invece per Nietzsche questo flusso
è redento, cioè il flusso viene conseguito liberando l'essere senza
fine, in uno stesso movimento, cioè non assolutizzando né l'essere
né il divenire, ma implicandoli. Trova così stabilità nel divenire
l'essere, pensando l'ente nel suo insieme, il cosmo e l'ente che non
è esterno, cioè soggetto e oggetto collimano. In questo modo passa
Nietzsche da un punto di vista scientifico a uno etico, cioè
pratico. Nel divenire eracliteo tutto cambia continuamente e ritorna
ma allora non vale la pena di impegnarsi in niente. Questo pensiero
colpisce Nietzsche, cioè che le nature migliori, il superuomo,
potranno anche essere in arrivo, ma se poi tutto ritorna si
ripresenterà anche il piccolo uomo. Allora non c'è niente da fare?
Non c'è più spazio per la decisione, per lottare per qualcosa? La
visione che crede tutto ritornare ancora, allo stesso modo, pensa ad
un cerchio che si chiude. Zarathustra non lo chiude. È l'attimo il
punto in cui si verificano tutte le possibilità. Se mordo, il
cerchio si apre. È vero che Nietzsche dopo lo Zarathustra si dedica
a una opera capitale, la volontà di potenza, ma essa è sempre
l'eterno ritorno. Quale rapporto esiste tra eterno ritorno e volontà
di potenza? Per Heidegger la volontà di potenza costituisce il
fondamento dell'eterno ritorno. Sono coappartenenti. Tre sono i poli
del pensiero di Nietzsche. A questi primi due va aggiunta la
tra-svalutazione di tutti i valori, che è poi il sottotitolo di
questa ultima opera incompiuta. Tutti e tre costituiscono l'insieme o
la forma di questa filosofia che si coglie solo attraverso questi tre
i punti. Il pensiero di Nietzsche vuole rovesciare l'insieme della
filosofia occidentale, che lui interpreta come platonismo. Il fatto
cioè che l'ideale è il reale e il reale è l'aldilà. La Bellezza,
sempre con la B maiuscola, è nell'iperuranio, nell'aldilà. Non è
che secondo Nietzsche l'aldiquà diviene reale e l'aldilà non
esiste. Non è questo il rovesciamento, il fatto è che lo spirito
si trova solo attraverso il corpo. Dunque, l'ideale si può dare solo
attraverso il reale e siccome il reale è contingente allora l'ideale
non può più essere assoluto. La bellezza perde la sua prerogativa
eterna, ora la scriviamo con la b minuscola. Questo aspetto coinvolge
anche la verità che si attua nel reale, e dunque non può essere
assoluta neanche quella. Così pensa Nietzsche. Se alla base della
vita ci sono i valori e quelli superiori sono determinanti per la
filosofia occidentale, allora i valori supremi della filosofia vanno
rovesciati, il contro movimento di Nietzsche è la tra-svalutazione
di tutti i valori. Il problema è allora cosa vuol dire che non
esistono valori assoluti, perché questo è proprio il nichilismo.
Quell'evento, Dio è morto, è la tra-svalutazione di tutti i valori,
che è poi la causa che determina il nichilismo. Il pensiero
dell'eterno ritorno si può conoscere solo attraverso il nichilismo,
solo così potremo capire il significato dell'eterno ritorno.
Dostoevskji nei fratelli Karamazov o nei Demoni dice che dobbiamo
passare attraverso l'ateismo per giungere alla fede. Altrimenti è
una fede sbiadita. Anche Lukacs lo dice. Dunque ateismo e nichilismo
sono pari. Nell'Apocalisse Dio dice io ti vomito dalla mia bocca.
Cioè, si deve lottare e passare dalla cruna dell'ago. Il nichilismo
nega i valori supremi e da lì si deve passare per capire l'eterno
ritorno. Una dottrina che si occupa del niente, cioè si occupa
dell'evento, cioè di ciò che si dà a un tratto, cioè che fino a
quel momento non c'era. La morte di Dio è la morte dell'assoluto,
prima Dio c'era, ma poi accade che non c'è più. L'eterno ritorno si
può dare solo dopo una decisione, dunque è un evento, appare
improvvisamente. Il niente, che è negazione di qualcosa, dunque di
ogni qualcosa, nega l'essere in generale, cioè l'ente in generale,
tutti i qualcosa che lo costituiscono. L'ente nel suo insieme è
niente per il nichilismo. Il pensiero dell'eterno ritorno ha un
carattere nichilistico perché rifiuta la temporalità lineare, cioè
il tempo in cui alla fine compare il senso, dunque nega il senso
finale, ma dice che il senso si dà solo nell'attimo, quando siamo
felici, allora tutto prende senso, tutto diviene buono. L'attimo può
essere soltanto partecipato, non può essere visto dall'esterno.
Siamo dentro il fiume, implicati. Allora non c'è più fine ultimo,
telos, il senso non si dà alla fine, ma ora qui, implicando una
decisione, il senso, allora, il fiume, in questa nuova
configurazione, in sui soggetto e oggetto non sono esterni ma
implicati, si dà senza fine, liberando continuamente l'essere. Il
senso è interno a noi che siamo intrecciati all'acqua del fiume.
Attimo e eterno ritorno, cosa è l'attimo? La linearità è una
menzogna, la menzogna del platonismo, ogni verità è ricurva, ogni
verità è un circolo, ma Zarathustra dice di non parlare alla
leggera, perché il cerchio non è chiuso, perché dice al nano
guarda questo attimo, la porta carraia, ognuna delle due vie è una
eternità, e poi domanda: la porta carraia ci sarà già stata? E ancora: e tutte le cose annodate tra loro in ogni attimo si
attraggono e anche se stessa? Il nano non risponde alla seconda
domanda, perché è un nano. Finché Nietzsche è preso dal senso
della pietas, quella di Schopenauer e Wagner, dice Heidegger, non è
pronto all'eterno ritorno, perché quella pietas insegna il
pessimismo e il nulla, essi parlano di risveglio, forse domani,
intanto continuando a dormire. Il serpente nero, che è il nichilismo
stesso, rimane nelle fauci del pastore. Dunque, la negazione del
valore e del senso diventano loro gli assoluti. Ora l'alternativa tra
il senso finale o nessun senso è il senso qui e ora. Il nichilismo
arriva nel sonno, nel sonno della ragione, e l'insensatezza è il
mostro, il nichilismo è questa insensatezza. Il pastore non era
all'erta, dormiva, allora Zarathustra cerca di strappare il serpente,
ma il nichilismo non può essere superato dall'esterno, va vissuto,
si deve passare attraverso la cruna dell'ago. Non si possono prendere
i valori sostitutivi dall'esterno, da fuori, si può solo
dall'interno, afferrare un mondo senza valori per farli uscire fuori
avviene senza appigli esterni, perché il serpente se lo tiri si
attacca sempre più forte, allora Zarathustra dice mordi, mordi. Il
serpente nero minaccia di incorporarsi e deve essere strappato da
dentro, non da fuori, solo il pastore può e deve stringere i denti.
Attendere senza affidarsi a chi arriva, anzi, sapendo che nessuno
arriva, solo noi possiamo attraversare il nichilismo ma senza un
senso finale, dando senso di volta in volta. Allora il senso diviene
contenuto e questo è sedimentato. Per questo parleremo sempre delle
stesse cose in modo diverso, perché scorriamo insieme alle acque. Il
riso del pastore è quello della gaia scienza, cioè, di un mondo
pieno di nuovi sensi e di ricchezze che giungono attraverso il morso.
Dunque, non è possibile raggiungere il senso per via logica, ma per
via etica, cioè praticamente, decidendo poeticamente, dalla parola
greca poiesis, che vuol dire fare. Solo dopo il periodo della porta,
il periodo del cane che ulula e che lo commuove, solo dopo aver
superato il nero serpente, allora aquila e serpente insieme lo
festeggeranno. Allora dopo la malattia viene la convalescenza e
Zarathustra va verso la guarigione.
Quarta
lettura
Giuseppe
Di Giacomo, Icona e arte astratta
Klee ha voluto che sulla sua tomba fosse scritto: «Nell’al di qua non mi si può afferrare. Ho la mia dimora tanto tra i morti quanto tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione, ma ancora non abbastanza vicino» Il luogo proprio dell’arte di Klee è il limite tra il visibile e l’invisibile, tra la forma compiuta e il processo di formazione sempre da compiersi: se il primo termine ci dà oggetti che nascondono il loro senso, il secondo termine ci dà proprio quel senso, non però come qualcosa di raggiunto una volta per tutte, bensì come qualcosa su cui dobbiamo sempre e di nuovo tornare a interrogarci. La pittura di Klee è questa interrogazione...
Franco Insalaco
Nessun commento:
Posta un commento