Giuseppe Di Giacomo,
docente di Estetica, La Sapienza, Università di Roma
In Jean Santeuil
Proust dice una cosa veramente importante riferendosi a Monet – che
Proust ha sempre stimato. Monet era l’impressionista per
eccellenza. È stato apprezzato, ad esempio, da Cézanne per il quale
la pittura non deve affidarsi all’occhio ma all’intelletto: deve
cogliere le figure geometriche sottese alla visività di quello che
vediamo e, a questo proposito, parla del cono, del parallelepipedo,
del cubo e del cerchio. Però Cézanne diceva: “È vero che Monet è
soltanto un occhio che vede, ma che occhio!”.
Una forte impressione Monet l’ha suscitata anche su un pittore come Malevič: un pittore dissacratorio nei confronti dell’arte del passato. Quando Malevič si esprime sul Davide di Michelangelo parla di un orrore, mentre per Monet le cose non stanno così, soprattutto dell’ultimo Monet, quello delle Ninfee, dove il colore è predominante. Il colore predomina sulla forma, nel senso che non è definito, limitato dalla forma, ma è il colore stesso a generare forme.
Anche Proust stimava
moltissimo Monet e proprio nel Jean Santeuil fa riferimento
alla serie sulla Cattedrale di Rouen. Qui a essere veramente
importante non è tanto il fatto che la luce che si rifletta sulle
pareti della cattedrale quanto il fatto che è il colore, nei suoi
vari aspetti, a generare la visibilità della cattedrale stessa: è
il colore che cambia, che genera. Non c’è, quindi, una parete che
accoglie il colore ma è piuttosto il colore che determina la parete.
E’ questa la grandezza di Monet. A questo proposito, Proust
sostiene che quel che conta non è affatto il riuscire a dipingere
ciò che si vede; non è questo l’importante. Come, del resto, non
lo è il dipingere ciò che non si vede. Proust, in questo senso,
afferma che la pittura non deve avere per oggetto né il visibile né
l’invisibile come tali. La pittura deve essere piuttosto in grado
di “mostrare” quello che si vede. Questo è il punto
fondamentale, in Proust, rispetto a Monet e alla pittura in generale:
mostrare non già quello che si vede o quello che non si vede, bensì
‘che’ si vede. Che noi vediamo, che si veda. Perché è così
importante? Perché, nell’affermare questo, Proust si sta riferendo
a qualcosa che deve essere proprio del pittore. Questi non si affida
tanto al vedere né ad un intelligere, a un intelletto cioè
che dietro l’apparenza pretenda di cogliere una pretesa essenza. Il
compito della pittura non è, insomma, quello di riprodurre il
visibile in quanto tale né quello di cogliere “dietro” il
visibile, qualche cosa che il visibile stesso non ci restituisce, ma
che l’intelletto in qualche modo riesce a cogliere. Il vero
pittore, invece, deve mettere in luce, deve mostrare, deve fare
apparire il fatto stesso che noi vediamo, che qualcosa cioè si fa
vedere, che qualcosa ci appare. Ed è proprio questo ‘che qualcosa
appare’ a far sì che quanto appunto appare non sia alcunché di
previsto né di prevedibile. È quello che poi Merleau-Ponty
definirà, dal suo punto di vista, la dimensione della meraviglia che
il pittore è in grado di generare.
La pittura, in questo
senso, ci fa vedere qualche cosa che noi non avevamo previsto; ecco
il ‘che vediamo’. Evidentemente abbiamo a che fare con qualcosa
di non prevedibile.
Perché è così
importante? Proust lo dice nel Jean Santeuil. Più in
generale, se ci si sposta lungo la Recherche, ci sono dei
riferimenti forti, diretti, alla pittura attraverso quel pittore
inventato di Proust che è Elstir. Ci sono pagine e pagine dedicate
alla pittura di Elstir, a certi quadri di Elstir dove a essere
dominante è il fatto che noi non siamo in grado, visibilmente, di
distinguere tra il mare e la terra. A ben vedere, dice Proust: “Più
li guardavo e più quello che doveva essere il mare era la terra e la
terra era invece il mare”. C’è uno spostamento costante;
qualcosa appariva in un certo modo e, invece, finiva col rivelarsi in
un altro modo. È evidente che, qui, Proust sta parlando di quadri,
ma parla anche di altro: del fatto, appunto, che qualcosa – ma
possiamo sostituire al qualcosa il qualcuno – appaia in un modo e
invece è in un altro modo. La Recherche lo racconta bene, a
partire dalla Odette di Swann, che è “qualcuno” e che poi,
invece, è “qualche altra persona”, ma lo stesso vale per la
figura di Albertine, che appunto appare in un modo e poi si rivela in
un altro modo. Questa compenetrazione degli opposti è il cuore
stesso della pittura di Elstir.
Al di là poi di questi
riferimenti esplicitamente pittorici, come Monet – pittore
realmente esistente – o Elstir – pittore invece inventato, un po’
come accade nel caso dello scrittore Bergotte –, quello che può
essere utile trarre da Proust è che lui parla di un vedere che è
sempre duplice: parla di una doppia vista, oppure di una prima vista
e di una “seconda vista”. C’è arte, quindi, se e solo abbiamo
a che fare con questa “doppia vista”. L’artista, che sia
scrittore o pittore, è tale proprio se riesce a cogliere dietro
quello che vede, o meglio, se riesce a cogliere “attraverso”
quello che vede, se la sua vista cioè riesce ad attraversare il
visibile; se il suo, quindi, è un vero e proprio
“guardare-attraverso”. A essere in gioco, quindi, non è tanto un
guardare sic et simpliciter, bensì un “guardare-attraverso”
il visibile per far emergere qualche cosa che a prima vista non si
vede, e che in generale gli altri non vedono. Si tratta di quella
capacità della “doppia vista” di cui lo stesso Wittgenstein si
augurava che il filosofo fosse dotato. Il filosofo come l’artista.
In uno dei suoi Pensieri diversi, del 1931, Wittgenstein
scrive infatti: “Possa Dio dare al filosofo uno sguardo acuto per
vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti ma che non tutti vedono”.
Ecco il punto: ciò che è sotto gli occhi di tutti. Se l’artista
semplicemente si attenesse a ciò che sta sotto gli occhi di tutti,
sarebbe un artista riproduttivo, laddove la vera arte – che sia
verbale o pittorica – deve piuttosto essere non già riproduttiva
bensì produttiva. Vuol dire che deve far produrre da ciò che vede
qualcosa che non si vede. Deve far sì che quello che si vede produca
qualcosa che apparentemente, a una prima lettura, a una prima
visione, non si vede. Ed è proprio perché a emergere è quest’
“altra cosa”, l’altro della cosa che la cosa stessa non
mostra ad una prima visione, che la cosa stessa è in grado di
sorprenderci. Vediamo la cosa in un certo modo e poi, invece, essa ci
appare in un altro modo. Questo rapporto tra il vedere in un modo e
poi vedere con maggiore attenzione facendo sì che emerga qualche
altra cosa, e quindi il rapporto tra il vedere e il vedere attraverso
– tra la prima vista e la seconda vista – è la medesima
relazione che c’è, in Proust, tra la memoria volontaria e la
memoria involontaria. Perché il vedere funziona come la memoria
volontaria: anche il vedere è subordinato alla volontà. Voglio
vedere qualche cosa e lo vedo, così come ricordo quando voglio
ricordare qualcosa. Laddove invece la memoria involontaria è quella
che si manifesta quando qualcosa, improvvisamente, ci assale.
Questa doppia capacità
di vedere, questa seconda vista, fa sì che quello che sembrava ovvio
non sia affatto così ovvio. L’arte ha a che fare, appunto, con il
non ovvio; è proprio questo il punto fondamentale: la non ovvietà.
Del resto, lo sappiamo,
era questo il fine di Marcel Proust che voleva diventare scrittore:
amava Bergotte che univa in sè lo stile di Balzac e quello di
Flaubert, una sorta di commistione. Era bravo il giovane Marcel
Proust a scrivere. Tutti lo apprezzavano: i parenti, gli amici. La
sua bravura consisteva nel fatto che era capace di descrivere le cose
esattamente come le vedeva e si poteva quindi constatare questa sua
capacità raffinatissima di descrivere le cose. Ma Proust non era
contento. Diceva: “Non è questo che deve fare l’artista”.
Cercava qualche altra cosa. Quest’altra cosa gli si comincerà a
manifestare quando, dietro a ciò che appare ai suoi occhi, comincia
a rivelarsi appunto qualche altra cosa, in modo tale da fargli
credere che poi il pittore, lo scrittore, non ha tanto bisogno degli
occhi. Questo qualcosa d’altro non si affida alla visione
ottico-retinica, tanto che per Proust può e deve valere quello che
Joyce afferma nelle prime pagine dell’Ulisse: “Chiudi gli
occhi e vedrai”. Del resto la dimensione epifanica di cui, appunto,
parla Joyce appartiene alla stessa famiglia della “memoria
involontaria” di Proust. “Chiudi gli occhi e vedrai”. Appare
qualche cosa d’altro. L’altro, l’epifania, il manifestarsi.
Questo è quello che l’artista deve essere in grado di mostrare.
L’altro di ciò che noi vediamo. Per fare questo dobbiamo
concentrare la nostra attenzione, dice Proust, su questo qualche cosa
che abbiamo davanti agli occhi; concentrarla tanto che, a ben vedere,
sembra che noi ci limitiamo a guardare ma, se la cosa l’abbiamo già
vista, perché dobbiamo continuare a guardarla?
Sto pensando ad un
esempio famosissimo che è quello della passeggiata fatta da Proust
con un amico, Reynaldo Hahn, all’interno
di un giardino dove c’è un roseto. L’episodio si chiama Le
Rose del Bengala. Passando davanti a questo roseto,
improvvisamente, Proust si ferma a guardarlo e chiede all’amico se
per favore lo può lasciare solo. L’amico prosegue, ritorna e
ritrova Proust immobile a guardare il roseto mordicchiandosi il
labbro superiore, come se l’amico non esistesse. Lui continua a
girare finché ad un certo punto Proust finisce di guardare e
continua la passeggiata. Che cos’è che stava guardando? Le rose le
aveva già viste. Evidentemente aspettava che le rose, potremmo dire,
si aprissero, per manifestare – con la dimensione epifanica –
qualche cosa che la vista come tale non era in grado di cogliere. Per
parlargli. Questo è molto importante perché Proust sta dicendo che
– e sarà fondamentale nella memoria involontaria – nel caso
dell’arte a essere fondamentale non è tanto il vedere ma piuttosto
la capacità di cogliere nel vedere, attraverso il
vedere, qualche altra cosa. Il significato di una tale volontà di
cogliere attraverso il vedere qualche altra cosa sta in questo: il
vedere implica sempre una netta separazione tra il soggetto e
l’oggetto: il soggetto vede l’oggetto, dove “oggetto” è da
tradurre con il termine tedesco Gegenstand, ossia ciò che sta
“di contro” al soggetto; nell’arte, invece, non c’è un
soggetto che vede un oggetto posto di fronte, altrimenti avremmo a
che fare con una visione meramente riproduttiva, il che non
servirebbe a molto. Nella vera arte, piuttosto, il soggetto guarda,
sì, l’oggetto ma lo guarda fino al punto che poi l’oggetto
stesso, a sua volta, “ri-guarda” il soggetto. È esattamente
quello che sta facendo Proust di fronte alle rose del Bengala: le sta
guardando aspettando che queste si aprano, si dischiudano e lo
guardino. In questo senso, non è più Proust a guardare ma Proust
guarda un qualcosa che a sua volta lo riguarda. Questo è il punto
fondamentale: si tratta di un guardare che è insieme un essere
riguardati.
È quanto non soltanto
teorizza Merleau-Ponty in L’occhio e lo spirito, ma è
quanto lo stesso Merleau-Ponty dice a proposito di Cézanne. Il
pittore, com’è noto, dipinge la montagna di Sainte-Victoire un
centinaio di volte – a olio, ad acquarello, la disegna a
carboncino, a matita –, ma non è mai soddisfatto: non c’è mai
una resa definitiva. Ci sarebbe una resa definitiva se appunto ci si
affidasse soltanto agli occhi, se gli occhi cioè fossero veramente
lo strumento della vista e se, quindi, grazie agli occhi noi
potessimo effettivamente vedere “come stanno le cose”. In questo
caso, il disegno sarebbe in grado di rendere ciò che l’occhio
vede. E invece, dice Cézanne, la verità è che: “quando mi metto
a guardare la montagna di Sainte-Victoire mi accorgo che la montagna
mi sta guardando”. Che mi sta guardando. Cosa vuol dire? Vuol dire
che non posso trattare la montagna come un oggetto da definire una
volta per tutte, dal momento che sento, mentre appunto la guardo, di
essere guardato, tanto che non riesco mai a definirla totalmente. Mi
posso avvicinare, sì, ma non posso mai definirla totalmente. In
questo senso, c’è uno scambio di sguardi, come avviene nel
dialogo. Il dialogo, infatti, è diverso dal monologo esattamente per
questo: sono due i soggetti in gioco, mentre nel monologo l’altro è
trattato come un oggetto che deve soltanto accettare la verità;
insomma, se nel monologo c’è una verità di cui uno è portatore,
invece nel dialogo non c’è nessuna verità già data. È un po’
questo il senso della pittura.
In Proust troviamo
esattamente questa dimensione: la dimensione dell’attesa: si tratta
di attendere che l’altro si manifesti, che l’altro parli. E
allora il dipingere, come lo scrivere, non è più riproduttivo, ma
produttivo.
Analizziamolo meglio
attraverso il tema della memoria.
La memoria volontaria è
legata alla nostra volontà e al nostro intelletto; ricordiamo quello
che vogliamo ricordare. Quello che ci interessa, però, è la memoria
involontaria. Come accade, cosa accade in questo caso? Nella memoria
volontaria si ha sostanzialmente una dimensione temporale che si
svolge secondo una linea retta: passato, presente, futuro. È il
presente che ricorda il passato. Nella memoria involontaria, invece,
le cose non stanno più così perché più che di linearità dobbiamo
parlare in questo caso di giustapposizioni, di momenti che si
giustappongono. Di episodi della memoria involontaria ce ne sono
molti nella Recherche proustiana. Famoso è il primo, quello
della madeleine, e poi ne avremo un gruppo importante nella
seconda parte dell’ultimo volume, nella matinée a casa dei
principi Guermantes. Che nel primo volume appaia già questa memoria
involontaria ci dice senz’altro qualcosa ma ci dice ancora poco;
tale memoria è apparsa, sì, ma non è stata ancora sufficiente per
far sì che Proust capisse davvero quale fosse il suo compito
d’artista... Perché, in fondo, tutta la Recherche è una
ricerca del modo in cui diventare artisti. Alla fine, però, egli
capisce che cosa deve fare per essere artista; eppure ne aveva avuto
un sentore iniziale, più di tremila pagine prima. Aveva però dato
poco ascolto a questa dimensione che invece era già importante. Ma
vediamo meglio di che si tratta. In che consiste questa forza della
memoria involontaria? È innanzitutto una giustapposizione di tempi.
Non c’è, quindi, una vera e propria identità: non è che il
passato e il presente facciano tutt’uno nel senso che restano
indistinti. I due piani sono invece distinti, ma non appartengono
affatto a dimensioni diverse: sono giustapposti in modo tale che
sono, per così dire, distinti nell’indistinzione; sono, cioè,
distinti nell’identità: appaiono nello stesso momento. Così, nel
caso della madeleine, Parigi e Combray sono colte nello stesso
momento; la dimensione spaziale e la dimensione temporale finiscono
così con l’identificarsi. Che cosa vuol dire? Come si manifesta
tutto ciò? Prendiamo il caso più noto della madeleine. Per
Proust, ovviamente, la memoria involontaria non è soltanto visiva.
Anzi, in generale, in Proust, essa è tattile, gustativa, olfattiva,
non necessariamente visiva. Proust afferma: “Mi appare
improvvisamente Combray”. Prima ad apparire è lui stesso con i
genitori che vanno in chiesa, poi dalla chiesa vanno dalla zia
Léonie, poi arriva la badante che gli porta i biscotti che piacciono
al bambino... ma a essere decisivo è il fatto che ad apparirgli,
dice Proust, è Combray nella sua totalità, con il suo fiume, i suoi
alberi, i suoi giardini, le sue case. “Tutta Combray, come non
l’avevo mai vista, mai sperimentata”. Nell’ultimo volume,
invece, scendendo dalla carrozza che lo porta nel cortile dei
Principi di Guermantes, invitato al concerto a colazione, egli sta
scivolando e, improvvisamente, si ricorda che qualcosa del genere gli
era già capitato molti decenni prima, quando con la madre era andato
a Venezia: erano entrati a San Marco e si trovavano nella cappella a
destra dove c’è il fonte battesimale e, lì, Proust bambino stava
scivolando e viene trattenuto dalla madre. In questo caso, a
comparire è il fonte battesimale, San Marco, poi piazza San Marco e
finisce così con l’apparirgli tutta Venezia, come non l’aveva
mai potuta vedere. Nessuno vede mai tutto, si vede sempre qualcosa di
parziale.
Evidentemente, allora, la
memoria involontaria ha a che fare con qualcosa di cui noi non
abbiamo fatto esperienza. Il che vuol dire che la memoria
involontaria, a differenza della memoria volontaria non è
riproduttiva. La memoria volontaria, infatti, riproduce quello che è
effettivamente accaduto. La memoria involontaria – per questa sua
capacità di evocare qualche cosa che noi non abbiamo mai
sperimentato – ci fa vedere qualcosa che non avevamo visto prima.
Non riproduce, bensì produce. La memoria involontaria, insomma, è
una memoria creativa. Ecco perché è fondamentale per l’opera
d’arte. Un’opera artistica, se è un’opera creativa, non è
soltanto riproduttiva. Questo Proust lo ha ben chiaro, ma ce l’hanno
ben chiaro tutti.
Malevič, questo, lo
ribadisce più volte, in modo ossessivo. La pittura non deve
riprodurre. Addirittura egli dice: “La pittura moderna nasce con il
Cubismo e il Futurismo ma, a ben vedere, anche il Futurismo e il
Cubismo in parte sono riproduttivi”. E lo sono perché hanno a che
fare ancora con oggetti: oggetti scomposti nel caso del Cubismo e
accelerati, dinamizzati, nel caso del Futurismo; e sarà appunto
soltanto il Suprematismo a fare il grande salto, creando ex
nihilo, dal niente.
Questo tema della memoria
involontaria dice, attraverso la dimensione della giustapposizione,
che l’arte si può nutrire, si deve nutrire di questa dimensione
involontaria perché, soltanto nutrendosi di essa e non affidandosi
invece alla volontarietà della memoria, può essere creativa.
Creativa, appunto affidandosi a questa involontarietà. Qualcosa
accade come non l’avevamo mai vista. L’arte, insomma, dovrebbe
rendere questo qualche cosa che non abbiamo mai visto. Ma può
renderlo? Può la scrittura rendere quella totalità che noi non
abbiamo mai potuto sperimentare e che invece la memoria involontaria
ci fa sentire? Noi possiamo descrivere quello che sentiamo? No. In
sostanza Proust ci sta dicendo che la memoria involontaria ci fa
sentire e non vedere, dove vedere equivale a intelligere. Dai
greci in poi, da Platone in poi, l’occhio significa non a caso
l’intelletto. Vale a questo proposito il detto di Nietzsche secondo
cui a essere vero è non già che noi “sappiamo perché vediamo”
ma, al contrario, che noi “vediamo perché sappiamo”. Dove
“sapere” viene da sapio ed equivale quindi a un vero e
proprio sentire: il sentire di cui parla Kant nella terza Critica, e
che sta alla base di ogni operare artistico. Il sentire implica, a
differenza del vedere, che soggetto e oggetto non siano distinti
perché, se sento qualche cosa, lo sento e, insieme, sento di sentire
qualche cosa: mi sento mentre appunto sento qualcosa. In questo caso,
non sono affatto separato da questo qualche cosa che sento. Questa
dimensione del superamento del paradigma cartesiano, che consiste
appunto nel dualismo soggetto-oggetto, è di grande importanza. Nel
caso dell’arte, tale dualismo è superato totalmente.
Cosa fa l’arte? L’arte
non deve semplicemente descrivere il particolare ma deve piuttosto
farci sentire, attraverso il particolare, l’altro del
particolare. Quell’altro che, appunto, è qualche cosa che noi
creiamo, che facciamo emergere, e che non possiamo riprodurre perché
non è appunto un dato; è piuttosto qualcosa che appare ma che, nel
momento in cui proviamo a descriverlo, ci rendiamo conto che non
siamo in grado di farlo. Lo dobbiamo quindi sentire. È come se nel
particolare dovessimo sentire, e far sentire, l’altro nel
particolare. Questo è un altro punto importante per Proust e ha
modo, Proust, di parlarci di questo qualche cosa che noi cogliamo e
che, nel coglierlo, ci sfugge continuamente. È quanto ritroviamo,
per altri versi – perché poi in Proust tutto è concatenato –,
nella figura di Albertine. Albertine, a un certo punto, viene
definita come la “grande Dea del Tempo”. E non è un caso che,
quando Proust saprà, scoprirà, che Albertine è morta, sarà
proprio questa una delle condizioni fondamentali per lui per poter
scrivere. Perché la scrittura deve vincere il tempo, l’opera
d’arte deve vincere il tempo, ma in che modo? Superandolo del
tutto? Abbandonandolo del tutto? O non è forse vero che l’opera
d’arte deve essere in grado di cogliere ancora una volta nel
tempo ciò che non appartiene al tempo, ciò che sfugge al tempo? Ma
il punto è che questa dimensione extratemporale può essere colta
soltanto nella temporalità. Quando Albertine muore, a morire è
appunto la grande Dea del Tempo e allora lui, Proust, è in grado
finalmente di realizzare un’opera con la quale, forse, potrà
vincere il tempo. Forse, perché sappiamo poi come il romanzo si
conclude: “Non ce la potrò fare visto che io sono nel tempo”.
Ma torniamo al tema del
vedere, del percepire qualche cosa che si dà e insieme si nasconde,
nel senso che si offre e si ritrae nello stesso tempo. C’è, a
questo proposito, un episodio famoso: quando Marcel, per la prima
volta, va a Balbec (località sul mare del Nord, nella Normandia dove
lui poi conosce il pittore Elstir e dove conosce, tra l’altro,
Albertine). Va con la nonna e sono in treno. Il viaggio è lungo, da
Parigi e devono trascorrere tutta la notte in treno. Si fa l’alba e
lui vede, improvvisamente, dal finestrino della carrozza in cui sta
con la nonna, affiorare l’alba, i colori dell’alba. Rimane
incantato da questi colori. Soltanto che il treno gira, fa una curva
e l’alba si ripiomba nelle tenebre, nel buio. Si accorge così che,
invece, sui finestrini del corridoio, nella parte opposta, l’alba
si può ancora vedere. Allora corre per riacciuffare l’alba, ma il
treno gira e allora corre un’altra volta verso il finestrino della
carrozza: corre per afferrare qualche cosa che continuamente gli
sfugge. La totalità dell’alba, insomma, non può essere colta se
non mentre si dà, di volta in volta, vale a dire sempre e solo
parzialmente. È esattamente quello che capita con la totalità, ma
potremmo anche dire con il Senso. L’opera cerca, sì, il Senso ma
questo Senso non si dà mai una volta per tutte.
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