Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


lunedì 9 gennaio 2012


PERCHÉ SI SCRIVE

di

Lorenzo Barani

1.
Si scrive perché la scrittura ci precede e noi siamo in quanto scrittura.

Lacan afferma che il soggetto inconscio è nel sembiante scritturale che plasma il suo significante. Derrida della scrittura ne fa l’orizzonte stesso della pensabilità filosofica, e non solo in termini ebraici o cristiani. Si scrive, dunque, in quanto si è scritti e perché scrivendo si sogna di leggersi, almeno un poco.



2.
Si scrive perché accadiamo nell’immensità dell’immenso e perché esigiamo tutto il tempo che l’immenso comporta.

La scrittura, per l’io, è come il tempo in Talete di Mileto. Dice una sua massima sapienziale: Il tempo è il più sapiente, perché vede ogni cosa. Vedere, far vedere, scoprire: potenza che si presentifica di volta in volta: il tempo, infatti, non c’è in sé, eppure c’è in quanto prende forma in ogni cosa, diviene la forma di ogni cosa; scrive il darsi della cosa; c’è nel mostrarsi della cosa, direbbe Jean-Luc Nancy. Estrema (apparente) umiltà ontologica, ma per un massimo di dignità esistenziale. È «potenza attiva» altrettanto che «potenza passiva», per mettere in paradosso due categorie ermeneutiche dell’ontologia di Aristotele.

3.
Si scrive per dare luogo al desiderio che è desiderio di tutto.

La potenza di desiderare ogni cosa è la natura stessa del desiderio, che, preso ontologicamente sul serio – dunque nella sua potenza creativa –, è la potenza di divenire ogni cosa. Stuporosa complicità di tempo e desiderio! Il desiderio è desiderio di tutto, di divenire tutto. Sarà paradossale, eppure questa è la misura che alimenta ogni grafia, lo stesso grafo inconscio che siamo, e ogni autobiografia che si spinga fino alla domanda della sua valenza filosofica: che in verità noi accadiamo nell’immensità dell’immenso. Ed è l’immenso del desiderio il nostro stesso segreto. L’evento [penso all’evento della scrittura, ma non solo] esige tutto il tempo, il tempo di una presentificazione senza limite; solo così tempo e desiderio convertuntur.

4.
Si scrive per l’impossibilità della presentificazione del tutto, del senza-limite.

Eppure, l’io è in potenza la sua scrittura. Aristotele esalta la potenza passiva – la capacità di accogliere, ricevere, prendere forma. Non solo, ma la potenza passiva gioca un ruolo attivo, di empatia, nella relazione dell’io con la scrittura. La scrittura può, anzi, divenire fin ingombrante e imbarazzante. Chi non sa che la scrittura prende la mano!

Ci vuole questa misura dell’immensità dell’immenso per relativizzare l’arroganza plebea di un presenzialismo promta manu, pronto uso, consumistico, per decostruire la boria spudorata di chi ci sferza alla produzione e al consumo, invece che al pensiero e alla sensibilità, ritenendo così di soddisfare l’immensità del nostro desiderio, l’inestinguibile sete di tempo. Ma noi sappiamo che si muore assetati di tempo. Io so che morirò assetato di tempo nonostante la mia tensione alla sapienza e malgrado la mia aspirazione alla saggezza di vita.

5.
Si scrive per non morire assetati di tempo.

Io so che il mio desiderio manca sempre il Tutto, so l’estrema relatività del mio misero tempo. Lasciatemi anche aggiungere che mi offende toccare con mano che il mio misero tempo debba involvesi in un contesto che tende a tradurlo in tempo meschino.

6.
Si scrive per dare spazio all’intimità.

Se questa è la misura, la macromisura dell’autobiografia, bene, non agli antipodi, ma al suo interno, nel segreto della sua intimità, l’autobiografia è un odore particolare, l’odore della persona stessa che scrive. Forse qualcuno potrebbe sorridere, considerando questo mio appello ad un senso, forse il meno blasonato dei sensi aristotelici. Ma tant’è, le parole autobiografiche fanno sentire l’evento straordinario dell’odore della persona. L’odore è sempre un infra, un inter, un tra. Le parole autobiografiche donano quel segreto di psiche che si gioca tra tempo e scrittura. Psiche non esiste in sé e per sé, ma riesce a vivere solo nell’infra, nell’intermezzo, nel metaxy. Psiche si gioca tra tempo e scrittura, nel coraggio della scrittura di donarsi tempo e di dedicarsi al tempo, di accettare la sfida di una presenza al presente che muove dall’assenza e dalla mancanza, e che perciò è in grado di arricchire il presente dell’ulteriorità.

Va approfondita la relazione tra intimità e ulteriorità nel farsi della scrittura autobiografica. La prima nota che presenterei a determinare la relazione tra intimità e ulteriorità è questa: la scrittura che si differisce nella relazione è il «tra» dell’intimità. La scrittura che si differisce è la spaziatura stessa dell’intimità. Scrivere è dare spazio all’intimità.

7.
Si scrive per la malia di avventurarsi nell’intimissimus.

La scrittura ha la potenza del differimento, la potenza di creare, così, tra me e me l’intimità. L’autobiografia si muove tra esperienza esistenziale e scrittura. Bisogna dire che quel che accade nell’autoscrittura, nel rapporto intimo dell’io con se stesso e dell’io con la scrittura, non è affatto la messa in rapporto di due entità sostanziali, come due cose già date da una parte e dall’altra; al contrario, quel che accade è il rapporto stesso in quanto intimità. Sull’intimità bisognerebbe intendersi. Qual è la natura sua propria dell’intimità? Si tratta del superlativo contratto di intus, intimissimus, intimus. L’intimo è l’interno, il più interno tra me e la scrittura, rispetto al quale non c’è un interno più lontano o più a fondo per me. Questo è il luogo più prossimo e più arcano che cerco nell’autoscrittura. Sembra sempre a portata di mano, ma rimane pure impossibile, proprio nella sua diveniente prossimità. Perché il fondo del mio essere, aimè, è senza fondo.

8.
Si scrive perché il piacere stesso non basta mai.

Il piacere dell’autoscrittura eccede il piacere stesso. Apre a un rapporto con se stessi in cui l’identità si eccede, diventa al più presunta, si riscopre sperimentale a se stessa. Ma attenzione: questo eccesso in eccesso anche sul piacere –si scrive proprio per questo eccesso in eccesso perfino sul piacere – porta l’io al confine col dis-piacere, al limite di un esaurimento di sé. Spingersi al proprio limite: un’ebbrezza che esige il suo prezzo. Lì, sul bordo di sé, c’è una supplica, forse un gemito, una preghiera a trattenersi, a ristare, a mettersi di sentinella, a vigilare. Non è che il senso sia lì disponibile alla presa, gratuitamente in uso. È una grazia complessa quella che offre la scrittura. Esige una sospensione delle occupazioni e degli interessi quotidiani. C’è un inter-esse, un «tra» tra sé e sé, e l’inter-mezzo, il «tra» è ciò che importa.

9.
Si scrive per il semplice sentimento/stordimento di esistere a prescindere.

Quando ci si accinge alla scrittura, deve bastare il semplice sentimento-stordente di “esistere” a prescindere da tutto. E non è di tutti, così come va il mondo.

Anche perché l’autoscrittura dà la sensazione di un atto che non si compie mai in forma perfetta. Il problema, quanto meno, è che, nel contempo, io sopravvivo all’atto della scrittura, quindi, anche solo perciò, di riflesso, la scrittura risulta incompiuta. L’atto dell’autoscrittura si consuma senza concludersi, non fa risultato, non fa successo – non nei suoi scopi –, non smette di cominciare e non smette di finire. Questo ingenera una tensione che può risultare formidabile. C’è un differirsi dell’io nell’autoscrittura, una tensione che mette tutto l’io in reazione con se stesso, in relazione alla scrittura di sé.

10.
Si scrive per l’enigma del tocco che ci scrive, per questa carezza.

Nell’autoscrittura l’io finisce per aderire al gesto, al senso di scrittura che lo descrive, che lo circoscrive, che lo tocca e lo accarezza.

Proprio come la zona erogena che, per lo più, esiste nel bacio, nella carezza, nel gesto che la eccita, l’accende o la vivifica. E come tutto il corpo può farsi erogeno, così l’io diviene tutti i gesti indefinitamente ripresi e modulati che lo de-scrivono.

11.
Si scrive perché non se ne può più di narcisismo e si anela alla s-misura di sé.

L’autobiografia è una misura spirituale senza fondo, un fondo senza fondo. Se io avessi un fondo certo, fondato, compiuto non potrei neppure entrare in rapporto.

Una sostanza auto-fondata chiuderebbe il proprio essere nella sua propria sostanza. Ma ecco il punto: l’intimo, in quanto intimissimo, è sempre più a fondo del fondo; sfiora l’ex-timo. L’intimo, direbbe Lacan, si ex-tima. E l’extimità è la partizione intima del proprio essere con l’altro, in specie con la scrittura. L’intimità, nella sua partizione di scrittura, nella sua extimità scritturale, è già ontologicamente diario intimo. Ma quale scrittura non è a suo modo un diario? Quanto più io sono intimo a me stesso, tanto più riscopro il mio stesso corpo come luogo di partizione di me e dell’altro.

Nel possibile godimento della scrittura, c’è dell’impossibile. Questo impossibile è reso possibile dall’intimità: io arretro in me stesso e misuro l’impossibilità, cioè la incommensurabilità di questo mio farmi intimo, essendo la mia una approssimazione a un non-fondo. Anzi, il mio farmi intimo concrea il luogo dell’altro. È nel rapporto con l’altro che sono che si s-misura la misura della mia intimità, perché devo pur arrivare a toccare con mano che senza l’altro non c’è intimità.

12.
Si scrive per il godimento-enigma della relazione intimità-extimità.

Ma ancora, perché il mio io possa godere nell’atto della scrittura, bisogna che non si depositi in una sostanza, in uno status compiuto, in una pretesa ipseità. Bisognerebbe che il suo godimento fosse il suo atto stesso di scrittura. La vita gode della scrittura come di un suo atto elettivo di grazia, sintomatico di apertura e dilatazione. Si scrive, infatti, perché scrivere è relazionare, camminare, annusare. Le parole hanno un fiuto, sono un fiuto. Nella scrittura la vita gode della possibilità dell’impossibile.

13.
Si scrive per saggiare l’inconfondersi di potenza passiva e potenza attiva, per questo libero gioco del proprio essere.

Un godimento speciale della vita nella scrittura sta in questo: che potenza passiva e potenza attiva nella scrittura si inconfondono. Ma non è facile il pensiero della scrittura come della possibilità dell’impossibile. Bene, proverei a pensare, allora, che affermare che l’io gode di sé nella scrittura significa dire che l’io gode dell’altro da sé che pur l’io contiene e che, tuttavia, nell’atto della scrittura, libera. Perciò si deve pensare che l’altro è il possibile dell’io, e questo significa che nella scrittura l’io libera la potenza dell’impossibile. Potenza che gli è intima come la più profonda intimità, perché non va mai sottovalutato, credente o no, che Agostino, al fondo del proprio io, non incontra un fantomatico io sostanziale, no!, ma l’assolutamente altro, Dio. La scrittura, infatti, come possibilità dell’io, è l’atto stesso del differirsi dell’io; è l’atto della partizione dell’io nell’altro da sé; è un atto del suo differenziarsi.

14.
Si scrive per saggiare il sacro godimento, che sta agli antipodi dei meccanismi di sublimazione.

C’è del godimento in questa relazione sorgiva, un massimo di godimento e di creatività. Si tratta di una relazione che sarebbe erroneo e superficiale giudicare a guisa di sublimazione. All’opposto è una realissima relazione in atto. È un fiore all’occhiello dell’intimità che si coniuga nei suoi vari nomi, nelle sue molteplici nominazioni che chiamiamo sentimenti, pensieri, emozioni, gesti, espressioni, presenze, ecc.

Nella scrittura come atto di partizione dell’io c’è del sacro. Chi scrive entra in relazione con il sacro e saggia le valenze sacre della differenza e della partizione. Delicatissima e preziosa è infatti la relazione potenziale con l’altro che sono. Un nonnulla può dissolvere il miraggio, l’a-letheia, il non-nascondimento, il venire in presenza dell’adveniente, dell’altro. E, allora, vorrei dire che, in questo atto di partizione e di differenziazione, c’è godimento, un sacro godimento. Nessuno ha titolo di giudizio, a questo livello, che è pre-estetico, pre-letterario, pre-disciplinare. Perciò si scrive, per saggiare questo sacro godimento. E bisogna provare a scrivere il proprio fondo per rendersene conto. È patetico il solo pensiero che uno possa dire: «Ecco, questo è il mio fondo ultimo». Lo si ascolterebbe con uno stupore unito a un sorriso malcelato di ironia, perché per quanto profondo, quel fondo non sarà né il fondo né il fondamento di quella vita, ma solo ciò che in quel presente si ritiene tale. Sarà sempre solo un momento del pro-fondamento del suo essere esistenziale. Dobbiamo sapere che ogni nostra enunciazione di fondamento, quanto meno post mortem, suonerebbe certo diversa. Come tenere conto del fondo oscuro, inenarrabile e fecondissimo della morte, dell’oltre, dell’ulteriorità? Noi che pensiamo e viviamo in presenza di questo s-fondamento, di questo senza-fondo, di questo oltrepassamento, di questa reciproca e congenita ulteriorità di vita e scrittura, non potremmo non sorridere di quella pretesa.

15.
Si scrive per ridere di ogni narcisismo.

E il nostro sorriso sarà etrusco: occhi serissimi, quasi impietriti e bocca ilare, ridente di ogni presente che sarà per noi tanto più interlocutorio quanto più tragicamente in-fondato, gratuito, donato. Questo è il paradossale dono del tempo della scrittura.

Vi leggo l’epilogo Fra amici di Umano troppo umano, Scrive Nietzsche:

È bello insieme tacere, / più bello insieme ridere, - / sotto il serico manto celeste / appoggiati al musco e al faggio / ridere con gli amici amabilmente forte / e mostrarsi i bianchi denti.//

Se ho fatto bene, vogliamo tacere; se ho fatto male – vogliamo ridere / e far sempre peggio, / fare peggio, ridere peggio, / finché scenderemo nella fossa.

Amici! Sì! Deve accadere? / Amen! E arrivederci!

Qui, la scrittura autobiografica è agli antipodi del narcisismo, nella sua capacità di essere l’esperienza dell’identità come differenza e come evento. Le parole, il pennino, il pensiero camminano nelle vie della mancanza, e ogni passo avanza affidandosi all’altro passo, lasciando incedere l’altro.

Nel coraggio della scrittura si può prendere tempo, prendersi il tempo per entrare nelle cripte dell’esistenza, tanto più intime quanto più capaci di resa nell’aperto, nell’ulteriorità, nella sublime esteriorità della scrittura, nella sacra superficie che è la scrittura. Deleuze parla dell’arte delle superfici come dell’arte più ardua. Allora il tempo è questo suo ridispiegarsi portentoso, la potenza di donare il nome all’esperienza, alla vita, ai sentimenti. Si scrive per resistere, e resistenza è essenzialmente narrazione bene-dicente, che ricerca il senso delle cose e il nome dei sentimenti.

16.
Si scrive per il tocco del «senza» del tempo e del «senza» della scrittura

Come il tempo si dà sempre senza la totalità del tempo, come il desiderio è irriducibile ai singoli desideri e si dà senza la loro stessa somma, perché il resto del desiderio è sempre la più parte, così dobbiamo pensare la scrittura in genere. La scrittura è una fôrma (in senso aristotelico), un darsi essenziale del tempo. Ma poi come con ogni essenza, essenziali divengono gli accidentes per la sua concretizzazione.

La scrittura è sempre “senza”. E non è solo un fenomeno del tempo, ma ne è una condizione di espressione e di manifestatività. La scrittura è un modo essenziale di venire all’essere del tempo, ma proprio perciò, poiché il tempo si dà riservandosi e sottraendosi, la scrittura è sempre “senza” il tempo. Diciamolo, nessuno e nulla possiede il tempo, nessuno e nulla possiede la scrittura, neppure lo scrittore.

Tuttavia, la scrittura è un differenziale del tempo. Il segreto e l’enigma della differenza della scrittura è nell’essenza stessa del tempo, il quale consiste nel portare tutto nell’altro da sé. La scrittura nasce già nell’altro da sé quando viene scritta e, ancor più, se possibile, quando viene letta. Questo, per Derrida, ha una portata ontologica. Non c’è Medesimo che non si differisca nel tempo, non c’è identità che tenga – che tenga ferma l’identità in quanto identità. D’altra parte, come nascerebbe l’identico se non differenziandosi dall’altro? Per Derrida, la differenza precede l’identità, la quale si determina come tale solo differenziandosi dal diverso. Le battaglie identitarie, le marcature di spazio e di cultura, le inscrizioni nelle radici originarie, le crociate confessionali scontano tutte una insolenza dogmatica inaudita, perché, in verità, nulla nel tempo rimane nel medesimo tempo e, dunque, nulla di medesimo via via permane mai nel medesimo.

Il dono del tempo è di non essere mai lo stesso. Il dono del tempo della scrittura è la sua illimitata disseminazione, la gamma di diversità di letture e di interpretazioni a cui la scrittura è affidata. Come il tempo in sé, così la scrittura in sé è pas-de-sens, un nulla di senso, ma nel suo donarsi è per un massimo di passaggi di senso, e anche questo è un modo di dire l’incredibile paradosso della scrittura.

17.
Si scrive perché la scrittura non finisce di maturare.

Perché oggi la filosofia tanto insiste sull’aporeticità dell’identità? Perché sulla battaglia identitaria tanti politici rampanti sferzano e aizzano le masse? Eppure, la identità è sempre aporetica ed è tanto più vitale quanto più lo sa e ne tiene conto. Erigere il filo spinato attorno all’identità ha poi effetti paralizzanti, ingessa le articolazioni del pensiero e dell’anima e getta nella depressione. Viviamo nella contaminazione e dobbiamo imparare a sopravvivervi, e questa è un’arte da acquisire, un’arte, direi, della pace.

L’autobiografia sboccia come arte della pace nella sua potenza di «maturare dopo il raccolto». Nachreifen: maturare dopo il raccolto. L’espressione è di Walter Benjamin e s’attaglia specificamente alle opere d’arte e alla poetica, per cui l’opera ha diritto a continuare la sua maturazione. Questo è pure il nocciolo della teoria della disseminazione di Derrida, per cui le opere non finiscono di maturare. L’autobiografia non è frutto perfetto appena scritto, ma ha diritto a continuare la sua maturazione. Ecco perché si scrive: perché l’opera non finisce di maturare. Non esiste una lettura definitiva di un’opera. Neppure l’autore deve pensare di chiudere la partita. Vale per un’autobiografia, come per uno spartito musicale. E ci sono interpreti che articolano uno spartito più del loro stesso autore. L’arte della pace è implicita nella potenza attiva e passiva dell’opera, in questa intrinseca relazione democratica interna all’opera. Ma questo può essere se la singolarità accetta la sua pluralità essenziale. Lì ci sarà sempre del lavoro da fare.






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