Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


giovedì 20 ottobre 2011

Le Rivoluzioni del 1800. (Incontro tenuto il 23/08/2011 al CostArena di Bologna, regia di Graziano Ferrari con la collaborazione di TenTeatro).

Profezia

Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini:
«Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!»
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica
voleranno davanti alle willaye.

(Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, Garzanti)

La rivoluzione è un atto politico inventato nella modernità, non esisteva prima. Certo, esistevano le guerre, ma le rivoluzioni sono un fenomeno recente. A differenza della rivoluzione scopo della guerra non è quasi mai la libertà, mentre la rivoluzione ha come obbiettivo proprio la libertà. La guerra è sempre stata elemento di continuazione della politica con altri mezzi, per questo solo in rari casi si è accompagnata storicamente con la volontà di liberare o liberarsi. La rivoluzione politica però, da quando è comparsa, si accompagna spesso alla guerra, anzi, vi è strettamente intrecciata.
Ad entrambe, dunque, appartiene lo statuto della violenza. L'uomo è politico perché è dotato di parola. E' perciò in grado di esprimere una volontà dialogica, qualora ne abbia la possibilità. La violenza assoluta, quella, per intenderci, espressa nei campi di concentramento, non ha al contrario bisogno di alcuna parola, almeno dialogica. Certo, è necessario conoscere la lingua dei padroni per ubbidire agli ordini, pena la morte, ma il dialogo è a senso unico, perciò interrotto. Per questo motivo gli atti violenti sospendono la polis facendo venire meno la parola. La Rivoluzione pertanto, essendo violenta, sospende la politica. Ma nel sospenderla la fonda. Accade perché ogni inizio è violento. Qualsiasi fratellanza, insomma, nasce con un fratricidio. Caino e Abele nella Bibbia, Romolo e Remo nella fondazione di Roma. Che siano leggenda o realtà storica il fatto è che gli uomini si tramandano sempre questi racconti. Pare che qualsiasi organizzazione politica inizi con un delitto. Lo Stato di Natura, termine coniato nel 1700 dai filosofi, indica con una perifrasi teoreticamente purificata il fatto che all'inizio delle cose umane c'è sempre un delitto, in quelle divine invece c'è il verbo. Le rivoluzioni sono eventi, cioè pongono gli uomini di fronte ad un nuovo principio, in questo senso sono anche dei mutamenti, cioè dei processi. Tuttavia, per gli antichi questi mutamenti rimanevano limitati. Nella storia delle naturali vicende umane poteva accadere che cambiassero i regimi politici, ma era una semplice rotazione, una sostituzione che vedeva alternarsi, all'interno di vicende per se stesse immutabili, i vari regimi. Registriamo, comunque, il precedente di Aristotele che interpreta proprio tramite la motivazione economica il rovesciamento del governo. Egli osserva come i ricchi a volte prendono il potere instaurando l'oligarchia, oppure, al contrario, come i poveri rovesciano il governo per attuare la democrazia. Nell'antichità, insomma, si era già capito che i tiranni giungono al potere sempre tramite il popolo. Accade perché il popolo aspira ad una maggiore uguaglianza di condizioni, una maggiore giustizia, spesso illudendosi. Perciò avevano visto, gli antichi, il nesso tra governo e distribuzione di ricchezza, e quindi si erano resi conto che il potere politico non è in fondo che la conseguenza del potere economico. Insomma, che l'interesse sia il motore dei conflitti politici è stato da subito ben chiaro. Se vogliamo rinfacciare a qualche autore una visione materialistica, ebbene, allora dobbiamo risalire fino ad Aristotele, perché lui per primo indica nell'interesse, cioè in ciò che è utile ad una persona, ad un gruppo o ad un popolo, la legge suprema delle vicende politiche. Fatto è che questa distinzione tra ricchi e poveri è sempre stata considerata naturale. Solo nella modernità ci troviamo di fronte al dubbio se sia veramente così, se esista naturalmente questa divisione. Si comincia a pensare che i ricchi si siano appropriati con la frode, con la violenza, con la furberia di tutti i loro privilegi. Si fa strada l'opinione che la vita sulla terra possa essere benedetta dall'abbondanza e non dalla miseria. Questa idea prerivoluzionaria nasce sia in America sia in Europa.

Lettura attore


Karl Marx, 'L'ideologia tedesca'
Sinora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell'uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall'immaginazione, sotto il cui giogo essi languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri. Insegniamo loro a sostituire queste immaginazioni con pensieri che corrispondano all'essenza dell'uomo, dice uno; a comportarsi criticamente verso di esse, dice un altro; a togliersele dalla testa, dice un terzo, e la realtà ora esistente andrà in pezzi[2].

Queste fantasie innocenti e puerili formano il nucleo della moderna filosofia giovane-hegeliana, che in Germania non soltanto è accolta dal pubblico con orrore e reverenza, ma è anche messa in circolazione dagli stessi eroi filosofici con la maestosa coscienza della sua criminosa spregiudicatezza. Il primo volume di questa pubblicazione ha lo scopo di smascherare queste pecore che si credono lupi e che tali vengono considerate, di mostrare come esse altro non fanno che tener dietro, con i loro belati filosofici, alle idee dei borghesi tedeschi, come le bravate di questi filosofici esegeti rispecchino semplicemente la meschinità delle reali condizioni tedesche. Essa ha lo scopo di mettere in ridicolo e di toglier credito alla lotta filosofica con le ombre della realtà, che va a genio al sognatore e sonnacchioso popolo tedesco.

Una volta un valentuomo si immaginò che gli uomini annegassero nell'acqua soltanto perché ossessionati dal pensiero della gravità. Se si fossero tolti di mente questa idea, dimostrando per esempio che era un'idea superstiziosa, un'idea religiosa, si sarebbero liberati dal pericolo di annegare. Per tutta la vita costui combatté l'illusione della gravità, delle cui dannose conseguenze ogni statistica gli offriva nuove e abbondanti prove. Questo valentuomo era il tipo del nuovo filosofo rivoluzionario tedesco.


Perché la vita sia benedetta dall'abbondanza e non dalla miseria è necessario per Marx ribaltare il modo di pensare che interdice agli uomini tale chance. L'idealismo viene dichiarato falso da Marx. Egli sostiene che finché immaginiamo le idee guidare i fatti del mondo ci accadrà come a quel filosofo tedesco che voleva togliere dalla testa della gente l'idea della gravità per impedirle di annegare. Marx produce insomma un modo differente di fare filosofia, un modo che parte non più dal concetto che le idee fanno il mondo, ma al contrario che è il mondo a fare le idee. Cioè, il mondo economico, produttivo e sociale costituisce l'ambiente che condiziona gli uomini a pensare in un certo modo. Pertanto, se c'è ingiustizia essa va ricercata nell'ambito delle relazioni economiche che intercorrono tra gli uomini. Lungi dall'essere lo Stato e il sistema sociale armoniosi, come indicava Hegel, Marx guardando alla realtà degli esseri viventi, anziché alle idee, ci fa partecipi di quanto sia lontana quell'armonia. Procede pertanto Marx a dimostrare i paradossi dell'idealismo. Giungerà alla conclusione che «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in vari modi; ma il punto ora è di cambiarlo.» Se fate caso le filosofie si muovono intorno ad alcuni poli principali: il razionalista pensa questo polo sia la ragione, l'empirista pensa sia l'esperienza, l'idealista pensa siano le idee, il realista (la scolastica) pensa sia il concetto, inteso come realtà del mondo, lo spiritualista pensa lo spirito, il materialista pensa la materia. Ora, possiamo intanto vedere che i primi di ciascuna coppia, se così possiamo dire, sono in alto e i secondi in basso. Per Adorno la filosofia non dovrebbe essere una topologia, le idee o le parole non sono rappresentazioni di posizioni nello spazio fisico. Eppure, questo è il problema, noi concepiamo come materia ciò che sta sotto allo spirito, lo spirito ciò che invece sta in alto nel cielo. Pensiamo le idee in alto e il mondo in basso, crediamo la ragione appartenere all'anima, che sta in alto, e le sensazioni ai corpi, dunque in basso. Seppure sono metafore che non hanno alcuna corrispondenza con le dimensioni del mondo, possiamo dire che tali metafore rendono più forti coloro che concepiscono la loro posizione come alta e dominante, anche se è solo un idea. Per questo chi ha una concezione elevata si sente elevato, fa parte di una élite. Dunque, l'idealismo tende a giustificare le condizioni di chi è sotto perché esse sono deducibili dall'alto, cioè dallo spirito. Tale posizione dominante dello spirito comporta anche una tendenza verso il dominio della natura e degli esseri ritenuti inferiori. Insomma, la metafora linguistica è cosi performativa da divenire realtà, la filosofia diviene una topologia. Contesterà Marx che lo Spirito Assoluto compia la perfezione nel mondo, anzi con il capitalismo asserve tutti indirizzandoci proprio all'inverso di quanto crede Hegel. Marx così fa un'operazione dialettica interna all'idealismo. Questo rovesciamento compiuto dal filosofo ebreo pone le basi della rivoluzione russa. Poi i marxisti cristallizzeranno la dimensione dinamica, cioè filosofica, di Marx tramite le discipline scientifiche, sociologiche, economiche, reificando il suo pensiero e compiendo una operazione opposta alla ipostatizzazione dello spirito, l'ipostatizzazione della materia. Cioè, l'asservimento al puro reale, senza nessuno sviluppo spirituale, senza nessuna critica, ma con la limitazione alla realtà come unica condizione dell'essere. Questo atteggiamento, altrettanto ideologico e falso di quello idealista, riduce la vita degli uomini al più assoluto abbrutimento. Anche la rivoluzione americana finirà in una simile chiusura, quella determinata dal pragmatismo. In simili condizioni ciò che viene meno è la possibilità di pensare utopicamente.

Lettura attore


Karl Marx, 'L'ideologia tedesca'

Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza anche al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’« autocoscienza » o trasformandoli in « spiriti », « fantasmi », « spettri », ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella « autocoscienza » come « spirito dello spirito », ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze.

La rivoluzione più grande, volendo, è quella compiuta dalla religione cristiana. La prima setta cristiana pensò all'uguaglianza delle anime davanti a Dio, dunque nella città di Dio tutti sono uguali. In questo modo si esprimeva un forte senso di ribellione. Poi, attraverso la Riforma, questa condizione si è via via laicizzata confluendo nelle rivoluzioni moderne. Queste hanno sempre più separato la religione dalla politica per cercare il Regno della uguaglianza in Terra. Possiamo così dire che noi chiamiamo rivoluzione quella fase transitoria che porta a una nuova forma di stato, cioè lo stato laico. Se questo è vero, allora la secolarizzazione stessa è all'origine delle rivoluzioni. Secolarizzazione che pone le condizioni per immaginare l'inimagginabile, cioè, che la storia degli uomini può essere interrotta da un evento che li precipita tutti verso un nuovo inizio. Nell'antichità tale inizio era impensabile. Nella Grecia era impossibile perché i fatti storici si ritenevano ciclici, circolari, ripetibili, questa era la loro natura. Nella concezione romana, invece, a causa del rischio che i giovani trasgredissero la tradizione, la virtus, cioè la virtù, è concepita come conservazione dell'origine, l'origine dell'Urbe, l'origine della città di Roma. Arete per i greci significa eccellenza, infatti gli uomini per essere ricordati dovevano fare gesta eroiche. Quando noi la traduciamo con virtus il senso diviene completamente diverso, perché per i romani ciò che è virtuoso è agire nello spirito dei padri fondatori. Non era importante agire soggettivamente se non per la gloria della città eterna. Ecco la ragione per cui la parola arete greca non corrisponde alla virtus latina. Ora, che si dia un inizio assolutamente nuovo è per la concezione romana impossibile, un po' meno per quella greca. La Rivoluzione Francese esprime la nuova concezione confronto all'antichità, Robespierre definì il suo governo: il 'dispotismo della libertà'. Condorcet ne riassunse in una frase ciò che tutti sapevano: 'La parola rivoluzionario si può applicare solo alle rivoluzioni il cui fine è la libertà'. Entrambi vogliono dire che la Rivoluzione aprirà le porte ad un'era completamente nuova. Nuova al punto che istituirono un altro calendario, contrassegnando l'atto di costituzione della repubblica con l'anno numero uno. Così l'idea di libertà e di un nuovo cominciamento nelle rivoluzioni moderne coincidono. Poiché il concetto corrente di mondo libero implica che nel giudicare le costituzioni dei diversi stati il criterio supremo è la libertà, piuttosto che la giustizia o la grandezza, tale inclinazione odierna ha probabilmente una origine rivoluzionaria. Tuttavia l'atto di liberare e la libertà non sono la stessa cosa. Nella polis greca si godeva della libertà solo quando si era tra pari. Esisteva cioè una condizione di isonomia. Uguale nomos, cioè una legge uguale per tutti. Là dove invece i principi, l'origine, quindi il dominio, in ambito tirannico o anche democratico, a causa della maggioranza, eliminano la condizione di isonomia, allora viene meno la libertà. Dunque, la libertà compare solo nella condizione di parità degli uomini davanti alla legge. Tale condizione nella polis non era determinata dalla nascita, non era una questione personale, non richiedeva una precondizione, era originata dalla cittadinanza. Solo chi è cittadino ha gli stessi diritti. Diritti che sono eguali tra i cittadini, ma solo in ambito pubblico. In privato invece il cittadino, anche se pubblicamente siede in senato, non è più libero. Proprio perché si rapporta con altri uomini non uguali a lui ma con la famiglia o con i servi, cioè chi non è libero, e questa condizione fa venire meno la sua libertà. La Rivoluzione Francese è un esempio di esperienza di liberazione, cioè acquisizione di nuovi diritti che avvenne tra uomini ritenuti pari, manifestando miracolosamente proprio quella fata morgana che chiamiamo libertà. Ma una volta acquisiti i diritti, anche una volta per tutte, ciò non di meno la libertà era già sparita. Il movimento di liberazione e la libertà perciò non sono la stessa cosa. Il movimento di liberazione è veramente rivoluzionario solo quando consente l'apparizione della libertà tra gli uomini. Mai come negli ultimi secoli questa ricerca è stata perseguita. Per Hannah Arendt datare i fenomeni storici, come la rivoluzione o il totalitarismo, significa cercare il momento in cui la parola compare per la prima volta indicando da allora l'inizio di quell'evento. Ancora nel rinascimento italiano il termine rivoluzione non è conosciuto, Macchiavelli usa l'espressione di Cicerone, mutatio rerum, quando parla di rovesciamento e sostituzione di un sovrano o di un governo. In realtà i cambiamenti, i moti, le ribellioni, i tumulti, le cospirazioni, le lotte, le illegalità di cui Macchiavelli parla sono ancora intese in un ambito tradizionale. Per Macchiavelli la sequenza dei governi si succede naturalmente, l'autocrazia o la tirannia porta alla democrazia, la democrazia all'oligarchia e l'oligarchia alla monarchia, come aveva indicato a suo tempo Platone. Ciò che invece Macchiavelli presagisce è il passaggio della politica verso una concezione laica, cioè indipendente dalla morale religiosa. Per questo invita chi governa a non essere buono, cioè a non rifarsi ai precetti della chiesa. Ciò che rende importante Macchiavelli per la concezione rivoluzionaria è il fatto che per primo si pone il problema di come fondare uno stato permanente, stabile e durevole. Macchiavelli voleva un'Italia unita, uno stato italiano modellato sull'esempio di quello spagnolo o francese, ma il pathos rivoluzionario che aspira a qualcosa di assolutamente nuovo gli era completamente estraneo. Sarà estraneo anche ai rivoluzionari successivi, tuttavia questi ultimi sentiranno nascere durante i moti proprio quel pathos. Per questo a Macchiavelli riconosciamo il fatto che è il padre spirituale della rivoluzione, se non altro perché Robespierre ritiene che nei suoi libri sia già descritto quello che andava fatto.


Lettura attore


Da Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane
Prima di abbandonare il capitolo sul «linguaggio delle cose» (che son sicuro ti avrà lasciato vagamente scontento, ostile, e magari un po' «scocciato») voglio darti una serie di esempi che ti faranno capire un po' meglio cosa ho voluto dire con questo mio esordio pedagogico misterioso.
Se io alla tua età (e anche molto dopo) camminavo per la periferia di una città (Bologna, Roma, Napoli...), ciò che quella periferia mi diceva «in suo latino» era: qui abitano i poveri e la vita che vi si svolge è povera. Ma i poveri sono operai. E gli operai sono diversi da voi borghesi. Essi quindi vogliono un futuro diverso. Ma il futuro è lento a venire. Perciò il loro domani - vissuto in questa periferia da loro, e da voi contemplato - assomiglia immensamente all'oggi. È un oggi che si ripete. I figli hanno assicurata un'esistenza simile a quella dei padri. Essi sono anzi destinati a ripetere e reincarnare i padri. La rivoluzione ha la pigrizia del sole che splende sui prati spelacchiati, sulle baracche, sui palazzoni scrostati. Tutto ciò non ferisce il passato, non lacera i suoi valori e i suoi modelli. L'urbanesimo è ancora contadino. Il mondo operaio è fisicamente contadino: e la sua tradizione antropologica recente non è trasgressiva. Il paesaggio può contenere questa nuova forma di vita (bidonvilles, casupole, palazzoni) perché il suo spirito è identico a quello dei villaggi, dei casolari. E, appunto, la rivoluzione operaia ha questo «spirito».
Se invece tu ora cammini per una periferia, sempre «in suo latino» tale periferia ti dirà: «Qui non c'è più spirito popolare». Contadini e operai sono «altrove», anche se materialmente abitano ancora qui. Le bidonvilles (grazie a Dio, certamente) son quasi sparite. Sono invece enormemente cresciuti i «centri» di palazzoni. Di un loro amalgama col mondo antico o contadino non si può parlare più. Le immondizie sono uno spaventoso corpo estraneo. I fiumiciattoli e i canali sono terrificanti. Il diritto dei poveri a un'esistenza migliore ha una contropartita che ha finito col degradarla. Il futuro è imminente e apocalittico. I figli sono strappati alla somiglianza coi padri e proiettati verso un domani che, pur conservando i problemi e la miseria dell'oggi, non può che esserne qualitativamente del tutto diverso. Di rivoluzione non se ne parla nemmeno: e tanto meno quanto più se ne parla freneticamente (una frenesia che i figli degli operai hanno imparato in un modo umiliante dai figli dei borghesi). Il distacco dal passato e mancanza di rapporto (sia pur ideale e poetico) col futuro sono radicali. Io, dunque, dalla realtà fisica della periferia ero educato alla certezza, a un amore profondo, sicuro e insostituibile. Tu invece sei educato all'incertezza, a una mancanza d'amore fatta di una falsa certezza crudele e impietosa (la coscienza «cristallizzata», convenzionalizzata, ciecamente aggressiva dei propri diritti). Mi sono dilungato sul «linguaggio della realtà fisica di una periferia cittadina»; ma discorsi analoghi ti farebbero i centri delle città e le campagne.
I centri delle città, per tutta la vita, hanno sempre assicurato il tuo pedagogo di una inalterabilità della tradizione umanistica e quindi di una qualità di vita, sia borghese sia popolare, fondamentalmente conservatrice (che la eventuale rivoluzione operaia doveva «rigenerare», ma non cambiare). A tè invece i centri storici delle città parlano di un loro problema particolare riguardante la loro conservazione fisica, la loro materiale sopravvivenza; dall'incompatibilità fra la loro struttura e la qualità di vita di una massa borghese e operaia consumistica nasce un caos per cui sia la parola «conservazione» sia la parola «rivoluzione» non hanno più senso alcuno.

La parola rivoluzione prende avvio da Copernico che per primo indica il fatto che gli astri ruotano secondo un moto regolare ed eterno. Apparentemente sembra indicare il contrario del suo senso politico. Peraltro il termine rivoluzione fu adottato politicamente quando la 'Rivoluzione Gloriosa' passò il potere regale degli Stuart a Guglielmo e Maria, così restaurando la precedente legittimità. Solo con la rivoluzione francese e americana il termine prenderà il suo significato politico attuale. Ma anche in questo caso la confusione avvenne per il fatto che sia in Francia sia nel nuovo mondo con la rivoluzione si intendeva tornare ad un ordine di cose precedenti, insomma, si voleva superare il dispotismo della monarchia assoluta e i soprusi del governo coloniale. La rivoluzione americana portò ad una volontà di restaurazione e recupero delle antiche libertà, che però si trasformò in itinere in rivoluzione portando a dichiarare l'indipendenza dal governo britannico. All'inizio delle proteste nessuno degli insorti immaginava che si potesse sopravvivere nel nuovo mondo senza l'apporto della terra d'origine. Insomma, anche non volendolo i ribelli divennero rivoluzionari. Anche per la rivoluzione francese si può dire che il fine non era il rovesciamento dell'antico regime ma la sua restaurazione. Questo anche quando la situazione ormai evidenziava l'impossibilità di restaurazione ma lo sviluppo di una cosa completamente nuova, eppure Thomas Paine, uno degli uomini più rivoluzionari del nuovo mondo, fedele allo spirito di un'epoca ormai tramontata, continuava a parlare di controrivoluzione. Insomma, i primi rivoluzionari erano dei gran tradizionalisti. Essi pensavano che la novità potesse essere motivo di minore credibilità. Volevano solo restaurare un tempo in cui la libertà non era ancora soffocata, un tempo beninteso non divino ma storico. La novità invece era utilizzata solo dai filosofi. Hobbes scrive che non esisteva filosofia politica prima del suo De Cive, oppure Galileo parla dell'assoluta novità delle sue scoperte. Ma prima che questo concetto di novità giungesse alla politica ci vollero almeno due secoli, nel frattempo quei doni si pensava non fossero giunti come opera umana ma della Provvidenza. Durante la rivoluzione francese accadde che i moti contro i controrivoluzionari portarono tutti alla stessa fatale e assoluta violenza. Ciò che ne emerse sotto il profilo teoretico fu la nascita del concetto moderno di storia nella filosofia di Hegel. L'idea rivoluzionaria di Hegel fu che l'antico assoluto si rivelava nella sfera delle vicende umane, ossia proprio nella sfera che i filosofi avevano negato essere fonte e origine di norme assolute. Modello di questa nuova rivelazione attraverso il processo storico era la rivoluzione francese. La ragione per cui la filosofia post kantiana esercita una così grande influenza nei paesi esposti alle agitazioni rivoluzionarie non è semplicemente l'aspetto idealistico, ma, al contrario, il tentativo di uscire dalla speculazione pura, la ricerca di una filosofia che accompagnasse le più recenti e reali esperienza del proprio tempo. Tuttavia anche tale impostazione era teorica, rimanendo il pensiero di Hegel strettamente contemplativo.

Lettura attore

Da Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane - Bologna, città consumista e comunista
Perché prendo come esempio del «discorso» non verbale — e proprio per questo fornito di una forza di persuasione che nessuna verbalità possiede - la città di Bologna? Semplicemente perché Bologna non è una città «tipica» dell'Italia. Essa è un caso unico. Ma nel tempo stesso essa si presenta anche come uno «specimen» molto avanzato per una eventuale e improbabile città italiana futura. La sua anomalia è dovuta al fatto che essa si è «sviluppata» in questi ultimi anni secondo le norme ormai sacramentali dello sviluppo consumistico: ma, insieme, essa è una città comunista. Dunque gli amministratori comunisti hanno dovuto affrontare i problemi che imponeva loro lo sviluppo capitalistico della città... Tu abiti a Napoli: e tutto ciò ti riesce quasi incomprensibile, naturalmente. A Napoli il povero e caotico sviluppo consumistico è nelle mani di amministratori che gli sono solidali. E cosi in quasi tutte le altre città italiane. (Quindi, per te, gli amministratori regionali e provinciali sono semplicemente degli antichi corrotti spregevoli viceré. Il «Re» è altrove, e altrove sta cambiando radicalmente forme e modalità. I viceré lo intuiscono, ma la loro torpida coscienza non ne sa nulla. Si comportano perfettamente, invece, per quanto riguarda la transizione: sono ritardati d'aspetto e di mentalità, molto avanzati nell'accettazione cinica del nuovo corso del potere, cioè dei suoi nuovi modi di produzione...)
Ma veniamo al discorso - riassunto - della città di Bologna. A te essa dice: «Caro Gennariello, ammira. Io sono una opulenta città del Nord che lo sviluppo ha reso ancor più opulenta: opulenta al punto da sembrare una città francese o tedesca. Se tu dovessi emigrare qui, la tua coscienza non potrebbe non essere ininterrottamente ammirata di questo fatto. Inoltre, qui siamo comunisti, e quindi puliti e onesti. Anche questo è un privilegio, rispetto al mondo da cui tu provieni. Naturalmente, se tu dovessi emigrare qui, non potresti che votare comunista. Queste due "grazie" — la ricchezza e l'amministrazione comunista — creano un ottimismo democratico che non potrà non gettarti in uno stato di estatica prostrazione, prima, e poi renderti un catecumeno del resto neanche troppo fanatico...»
A me la città di Bologna dice: «Io mi confronto con la Bologna che tu hai lasciato una trentina di anni fa. So che mi ammiri e che mi consideri ancora la migliore città d'Italia, seconda solo a Venezia anche per quanto riguarda la bellezza. Ma so anche che qualcosa di me ti delude o ti divide. Non è il rimpianto per quella città di trent'anni fa che ormai non c'è più, pur conservando intatta la sua forma: ciò che ti delude e ti divide è la constatazione di ciò che io sono nel presente. È attraverso il tuo carattere e la tua cultura, che qui infatti ti parlo. La mia oggettiva realtà non avrebbe parole per te. La prima e unica proposizione del mio silenzio sarebbe: "Io ti sono estranea e incomprensibile". Se, attraverso il tuo carattere e la tua cultura, posso ancora parlarti, ciò è merito della funzione conservatrice che qui ha avuto il partito comunista. Sei perciò tentato di stabilirti qui, di lavorare qui, di abitare magari nella casa di via Zamboni dove sei nato o in quella di via Nosadella dove hai passato l'adolescenza e scritto i tuoi primi versi. Ma lo stesso fenomeno - cioè il fatto che io sia una terra separata, un'isola - che tende a trattenerti qui, ti respinge quasi spaventato nei luoghi non privilegiati dalla mia felicità. L'estraneità di un centro urbano e di una zona industriale praticamente estesa a tutta la campagna - ormai presi nel giro che porta a un futuro sostanzialmente diverso da ogni passato che tu conosci - naturalmente ti traumatizza. Vedere il sabato sera una baraonda che ricorda il Quartiere Latino, col trionfo della coppia e la presenza del teppismo, ti sconvolge. Il vantato gioco democratico (come dice il tuo amico Scalia) con assemblee, partecipazioni, autogestioni, ti mette a disagio. Ma io so che ciò che più di ogni altra cosa ti rende ansioso e quasi angosciato per quanto riguarda il mio fenomeno, è il fatto che io ponga problemi riguardanti lo sviluppo consumistico transnazionale a una giunta comunista regionale. La quale nel risolvere quei problemi li accetta. E accettando quei problemi — nella pratica, che è sempre una teoria ancora non detta — essa accetta anche l'universo che li pone: cioè l'universo della seconda e definitiva rivoluzione borghese. Ciò che una città italiana è diventata - sia bene o sia male - è qui accettato, assimilato, codificato. Nel momento in cui sono, insieme, una città sviluppata e una città comunista, non solo sono una città dove non c'è alternativa, ma sono una città dove addirittura non c'è alterità. Prefiguro cioè l'eventuale Italia del compromesso storico: in cui nel migliore dei casi, cioè nel caso di un effettivo potere amministrativo comunista, la popolazione sarebbe tutta di piccoli borghesi, essendo stati antropologicamente eliminati dalla borghesia gli operai...» 8 maggio 1975.

Così il grande rischio che si profila nel pensare la parola rivoluzione è che essa sia un percorso in cui volgiamo le terga al futuro. Rischio che è oggi più evidente nella Nouvelle Droite, cioè la Nuova Destra francese. Il fondatore si chiama De Benoist, il suo pensiero è ispirato alla decrescita, al pensiero degli antiutilitaristi, cioè Alan Caillè e Latouche, alla democrazia diretta e partecipativa, all'apertura dialogica, alla ricchezza della differenza. De Benoist sostiene l'impossibilità di attribuire al pensiero una matrice di destra o di sinistra. Sostiene che il pensiero è comunque valido, sia che provenga da una parte sia dall'altra. Tutta la sua filosofia si ispira a questo principio. Crede nel pacifismo e nella possibilità di un mondo basato sul dialogo, per costruire proprio a partire dalla differenza la sua ricchezza. E' contro l'economia, la scienza, la tecnica e contro l'egemonia degli Stati Uniti. Ma allora siamo tutti d'accordo con lui? La liberazione che propone è di ritornare sui nostri passi. Di saltare scavalcando il monoteismo fino all'eldorado di un nuovo paganesimo. René Girard, pensatore cattolico, filosofo, antropologo e critico letterario, suggerisce che tornare a quei tempi non elimina la violenza. Comporta tornare ad un mondo in cui la violenza era esercitata in altro modo, meno potente, ma solo perché tecnologicamente meno raffinato. Non esistono eldoradi, o paradisi perduti. Sono, per Adorno, solo luna park tollerati dal capitalismo. Così, vedremo nel prossimo incontro su 'Le invenzioni della guerra moderna' la nostalgia di De Benoist per la sfida cavalleresca che onora l'avversario, contrapposta alla guerra totale inventata dalla rivoluzione francese. Per guerra totale si intende nella modernità la sfida che avviene non più tra soldati di ventura che hanno deciso di fare quel mestiere, ma tra eserciti costituiti da interi popoli perché nel frattempo Napoleone ha inventato la coscrizione. La rivoluzione allora, per concludere, è solo quell'evento in cui un primo tra pari dà inizio ad una azione che oltre a liberare gli uomini fa comparire tra essi la libertà. Necessario sarebbe ereditare un testamento in cui le esperienze passate di tali eventi ne indicassero le modalità. Hannah Arendt, ad esempio, vede nella resistenza partigiana una delle sue più recenti comparse. In Islanda di nuovo si è miracolosamente mostrata la libertà quando, negli ultimi due anni, la popolazione ha cacciato pacificamente la vecchia classe dirigente, ha indetto nuove elezioni e scritto una nuova costituzione. In ambito sociale l'unica libertà che si può manifestare è quella dai bisogni e dal lavoro. Non è poco, ma è solo l'inizio. La sola dimensione in cui la libertà compare è invece nello spazio politico. Liberati dai bisogni, se non se ne inducono di nuovi, possiamo iniziare a creare nuovi spazi politici, agendo insieme ad altri pari a noi. Spesso preferiamo l'alternativa dedicandoci al consumo. Questa ultima attività si aggiunge allora alle altre classiche categorie filosofiche dell'esistenza inquadrate nella Vita Activa della Arendt. Possiamo fare delle opere, possiamo lavorare, possiamo agire oppure consumare. Ma per consumare è necessario un lavoro produttivo in cui la razionalità economica dia misura delle cose da fare. Cioè, bisogna farle in misura adeguata perché messe in ciclo nel mercato siano consumate. Una volta il lavoro non era così finalizzato dal ciclo economico e dal guadagno. Ad esempio, le chiese costruite intorno all'anno mille in stile gotico si concepivano in modo che i partecipanti realizzassero il loro lavoro con la massima abilità. Il cantiere diventava uno spazio vitale in cui creare insieme. Il fine non era dettato dalla razionalità economica, dal calcolo e dal guadagno ma dalla perfezione della cosa in sé. Il lavoro artigianale conserva in parte questa dimensione. Pensare rivoluzionando utopisticamente il significato della parola lavoro è difficile. Eppure, potrebbe essere una delle eredità necessarie da ripensare, perché sia possibile non tanto un altro mondo, ma l'altro del mondo. Pensare che un altro mondo è possibile è un pensiero prometeico, al contrario di quello che crede il movimento, ed è una relativizzazione. Come se il mondo fosse intercambiabile, cioè disponibile secondo la volontà dei soggetti. Questo non è un pensiero che libera. L'altro del mondo, l'alterità di cui parla Pasolini nell'ultima lettura, al contrario, significa dare vita alla parola di chi non ce l'ha, dare voce ai perdenti, alle lingue minori, alle possibilità che non hanno corso, al mondo che poteva essere ma non è stato. 


Franco Insalaco

Nessun commento:

Posta un commento

Archivio blog