Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


lunedì 20 febbraio 2012

Un laboratorio di scrittura


Articolo pubblicato su “éupolis. Rivista critica di ecologia territoriale”, fondata dal filosofo Pietro M. Toesca, n. 41, luglio/settembre 2006, San Gimignano, Ed. Nuovi Quaderni


È il racconto di come si è svolto un laboratorio di scrittura “creativa” durato un anno e una scelta dei tantissimi testi che da lì sono nati.


Un laboratorio di scrittura
Sabina Macchiavelli


La scrittura del corpo, il corpo della scrittura

L'esperienza della scrittura passa attraverso il corpo, se non altro perché per scrivere usiamo le mani, o la voce se dettiamo. Ma passa per il corpo anche in un altro senso.
Quando traducevo avevo una percezione molto forte della "fisicità" della scrittura: sulle parole o i giri di frase particolarmente ardui il corpo si agitava irrequieto, letteralmente spostandosi sulla sedia, una specie di corrente mi percorreva e creava la tensione mentale necessaria per ritrovare il termine o l'espressione giusta.
Cosa significhi "giusta" non l'ho ancora ben capito; so che, nel momento in cui la parola, nella massa cangiante e multiforme dei cosiddetti sinonimi, di colpo arrivava io provavo una gioia fisica che assomigliava a quando, ad una festa, in mezzo a una folla di sconosciuti con cui poco hai a che spartire, improvvisamente compare il volto amico. Un riconoscimento, un desiderio di andare incontro, di accogliere e farsi accogliere; finalmente la possibilità di un piano alto (altro?) dell'esistenza. La parola o frase "giusta" era tale per tante ragioni: il suono, il ritmo, la forma che prendeva sulla carta, la sintonia che aveva con le altre che la circondavano... Magari il senso non corrispondeva al dettato del dizionario bilingue, ma l'emozione fisica mi faceva certa della scelta. (Del resto, che cos'è poi il "senso" se non, poesia insegna, suono e forma e sintonia e ritmo e…?).
Gli incontri di scrittura sono nati dalla convinzione che tutti si può scrivere perché tutti si ha un corpo. A patto che il pensiero unico non ce ne deprivi, spingendoci a credere che il corpo è una macchina da mettere a punto di tanto in tanto come faccio con la mia Saxo.
E scrivere fa stare bene. Anche questo è un pensiero abbastanza complesso, perché in realtà l'esperienza del narrare è spesso faticosa, angosciante, il vuoto della pagina crea abissi, smettere di "usare" le parole per lasciarsi da esse attraversare destabilizza. E poi non si ha tempo, il mondo richiede da noi altre efficienze. Ma allorché ci si prova, ci si mette lì con la penna a vergare un foglio e si vede che la scrittura arriva, allora si è per un attimo (e anche dopo nel ricordo) felici. Questo, assieme al pensiero di offrire agli altri la possibilità di leggerci.
Ho chiesto alle amiche di partecipare perché molte di noi ho viste soffrire di un mondo governato dalla logica maschile, lacerate fra esigenze di crescita personale e obblighi imposti da ruoli, lavoro, famiglia, economia domestica, relazione di coppia. Forse, mi sono detta, scrivere aiuta a vedere con occhi nuovi e a percepire altre strade. Forse aiuta a stare meglio. Non amo molto l'idea di una "scrittura terapeutica", né sono in grado di capire cosa significhi; la scrittura a cui penso e che talvolta sperimento è un modo di "prendersi cura" di sé creando pensieri ed emozioni da lasciare dietro e oltre, al mondo.
È nato così un percorso che non porta a nulla perché non si pone obiettivi, che è basato su nulla perché non pratica tecniche, che non serve a nulla perché manca di efficienza. Proprio in questo suo andare nell'altro verso rispetto alle logiche del sistema, il laboratorio ha aperto nuove possibilità di leggere le nostre vite e di pensarle.
Per cercare di far partire una cosa che non sapevo neanche io bene in che consistesse, ho spulciato i manuali di "scrittura creativa", ho guardato in Internet, ho riesumato vecchi ricordi di ancor più vecchi corsi, senza trovare granché. Poi ho parlato con Giovanna Toesca, che da anni conduce incontri di scrittura femminile, e ho capito che non c'erano arcani da svelare, o chissà quali abilità da sfoderare: per scrivere bastava… scrivere. E, naturalmente, partire dall'esempio.


Traccia di un percorso

Ogni laboratorio, un pomeriggio al mese, inizia da un (re)incontro col proprio corpo. Ho rielaborato in maniera flessibile ed eclettica le pratiche ed esperienze con cui sono entrata in contatto nel corso di vent'anni: yoga, ginnastica dolce, danza orientale, massaggio, naturopatia, teatro dell'oppresso, tecniche e giochi della nonviolenza. Il tentativo è quello di mettersi in ascolto, percependo le tensioni, i nodi, i viluppi energetici, la maniera in cui le emozioni ci attraversano dalle dita dei piedi alla punta dei capelli, e poi di stare dentro questo ascolto e sentire che nel corpo fluisce il respiro e con esso il movimento. Ognuno di noi ha un corpo, quindi un respiro e un movimento, che riesca a manifestarlo o meno. A volte chiedo di nominare le sensazioni fisiche, con una o due parole, senza "spiegarle", interpretarle, né tantomeno giudicarle. Quando avverto che è nata una buona sintonia fisica, leggo il testo o i testi scelti per l'occasione (questo intendo parlando di "esempio") e invito ad ascoltare i silenzi e le parole, sentire in che parte del corpo risuonano, quali vi restano impigliati dentro, quali sgusciano via di soppiatto, quali fanno nascere ricordi o pensieri, quali ci emozionano, o ci spaventano o ci innervosiscono…
Poi finalmente scriviamo. Di volta in volta l'elaborazione può essere libera e personale oppure guidata. Se "l'esempio" ce ne offre l'opportunità, pongo un limite, una consegna più specifica: numero preciso di parole, inizio obbligato, acrostico... Ho scoperto che il vincolo anziché bloccare libera le energie creative, come ben sanno e invitano a fare gli scrittori dell'OuLiPo (i quali parlano di contrainte.)
Da ultimo viene il momento della lettura e condivisione dei testi, particolarmente significativo e molto, molto delicato. È la carne di ciascuna che lì si mostra, la lingua del corpo che si fa ascoltare. Il percorso non ha intenti artistici: non vogliamo diventare scrittrici, non impariamo a scrivere "bene" né tantomeno grammaticalmente corretto; cerchiamo di trovare ognuna la voce "propria", radicata nel corpo, corpo unico con il proprio pensiero. Per questo dalla lettura è escluso il giudizio: non abbiamo canoni estetici a cui rifarci. È invece molto presente l'interrogare e interrogarsi sui testi, il raccontarne le risonanze, il percepire distanze e vicinanze e prossimità.
Spesso il percorso fatto stimola altre scritture, in privato, ciascuna a casa propria, nel periodo che intercorre fra un appuntamento e l'altro. Anche di queste il gruppo è reso partecipe.


Sul filo della lingua

Ciò su cui mi interessa lavorare è il piano linguistico. È un concetto molto complesso, mi risulta difficile spiegarlo, riesco solo ad intuirne il senso, che è legato alla mia esperienza di lettrice – traduttrice – insegnante di lingue. Non è possibile nel linguaggio (penso in particolare a quello narrativo e poetico) scindere "forma" da "contenuto", non è possibile dire la stessa cosa con parole diverse. Con parole diverse dico cose diverse. Secondo Flaubert, scrivere (ma, aggiungerei, anche parlare) è una questione di stile. Lo stile non è un belletto applicato sulla faccia dei pensieri: lo stile è il pensiero che in esso fluttuando si rapprende. Quindi se cambio stile cambio pensiero.
Negli incontri di scrittura evito di dare e chiedere "spiegazioni", di "raccontare" un libro o una storia, di parafrasare un testo poetico, cioè di "situare" entro un contesto logico-razionale, lungo una linea temporale marcata, il brano che leggo. Lascio che siano le parole dell'autore a dire e a dirsi, il suono pronunciato e il segno tracciato a narrare l'evento di cui è scritto.
Le parole, bastanti a se stesse, contengono una magia straordinaria, non hanno bisogno di altro per dischiudere un mondo e farlo fiorire sotto i nostri occhi. Così, magicamente appunto, durante il laboratorio avviene che la suggestione dell'"esempio" è talmente potente da risuonare come un'eco infinita nei testi che scriviamo, cosicché essi ripercorrono e ripropongono i motivi, le emozioni, i "temi", se si vuole, che attraversano il romanzo o il racconto intero, o il pensiero poetico di un autore, anche se il romanzo o racconto o pensiero poetico intero non ci sono noti.
Rimanere sul piano della lingua è arduo. E anche rischioso. È arduo perché siamo portati, per troppa abitudine all'idea che il testo vada interpretato (la scuola, giustamente, insegna: "Cosa vuole dire l'autore?" "Dillo con parole tue"), a mettere dentro alle parole un sovrappiù, una lettura personale che è in realtà riscrittura, un "tema" che sta a cuore a noi ma forse all'autore no. È rischioso perché restringere il proprio ego fino a limitarlo dentro le linee di un testo dà le vertigini: si rischia di "non capire" o, forse, si rischia di capire e quel che capiamo non ci piace perché affonda certe nostre certezze. Questa è la parte più complessa del laboratorio, la fatica più grande; è l'intento sempre rincorso e che sempre sfugge e, proprio per ciò, la ragione per cui è necessario che l'esperienza continui.

Nel percorso abbiamo letto brani tratti da:
Renata Viganò, "L'Agnese va a morire"
Heinrich Böll, "L'onore perduto di Katharina Blum"
Barbara Garlaschelli, "Sirena"
Cesare Pavese, "La bella estate"
Marguerite Duras, ‘L’ortica spezzata’, in “Il dolore”
Stefano Benni, ‘Lara’ in "L’ultima lacrima”
Sibilla Aleramo, "Una donna"
Dalton Trumbo, "E Johnny prese il fucile"

E le poesie:
Emily Dickinson, "Exultation is the going” (n.76)
Fernando Pessoa, ‘Sono un guardiano di greggi’, in “Una sola moltitudine”
Mariella Bettarini, “Silenzio (I)”, in “éupolis” n°38 / 39, ottobre 2005 / marzo 2006
Haiku da “Cento haiku”, Ugo Guanda Ed.
Paul Celan, ‘Dem das Gehörte quillt aus dem Ohr’ e ‘Strali di pulsazioni’, in “Conseguito silenzio”
Alda Merini, ‘Non siate solo stendardi’ e ‘L’altra verità’, in “Clinica dell’abbandono”

I testi che seguono sono una scelta dei numerosi nati nel corso di quasi un anno. La maggior parte delle autrici non si erano mai cimentate prima con la “scrittura creativa”; i loro ricordi risalivano a forme di scrittura privata e personale (diari, sfoghi adolescenziali) che hanno certo un grande valore per il percorso esistenziale di ciascuna ma, giustamente, non legano il loro senso a un’apertura verso l’esterno.
Questi testi sono voci differenti, singolari, autentiche. Abbiamo deciso di non mettervi accanto i nomi delle autrici perché non rivendichiamo nei loro confronti alcun diritto di proprietà privata. Sono per noi un dono e, dall'istante in cui li abbiamo scritti, cessano di appartenere e iniziano a correre nel mondo.
I testi si sono scritti con l'aiuto di:
Antonietta Graziano
Barbara Baldini
Cosetta Giannini
Germana Fratello
Iolanda Gigli
Lucrezia Marzolo
Marina Perini
Paola Jara Neira
Roberta Malaguti
Rosanna Orlandi
Sabina Macchiavelli


I testi

Poi, finalmente, arrivò la guerra. Finalmente gli uomini partirono, portando con sé e lasciando alle donne il ricordo dell'ultima notte, vissuta fino al mattino senza sonno e senza riserve. Nello sforzo di imprimersi in mente un viso, ciascuno e ciascuna per la prima volta e con meraviglia ne scoprì la bellezza. Finalmente le persone, nell'emozione di incontrarsi per strada scoprendosi ancora vive, si abbracciavano con trasporto, e gioivano senza vergogna di quel contatto. Ogni mattino, pomeriggio, tramonto, furono aspettati, desiderati, vissuti.
Ognuno poteva esprimere tutta la propria forza nelle attività di ogni giorno, e aiutare quanto era capace, senza che nessuno rifiutasse un aiuto, tanto grande era il bisogno. E bastava guardarsi intorno per scoprire un richiamo chiaro, evidente, cristallino. Per tutti c'era lavoro.
L'odio era netto e tangibile, pulito.
Nei momenti più difficili si poté piangere forte e anche gridare, e chi non piangeva era partecipe di quel dolore, e non c'era commiserazione. Quando ci fu la fame alcuni riuscirono a condividere un pasto, e per questo si sentirono grandi. Niente si risparmiò per il futuro e si consumarono fino alla fine cibo, desiderio, tenerezza e rabbia.
Quando poi finalmente tornò la pace, il tarassaco fiorito nella terra distrutta e bruciata apparve a tutti per quello che era sempre stato: un miracolo.

***

Il vento mio padre
Il seno mio figlio
ed io la testa
Il vento... Dove sono?
Non lo so!

***

La mia mano nella sua mano?
ma chi se la ricorda...
Premeva un desiderio di essere portata,
in braccio,
a scoprire il vasto mondo.

***

Después de tanto tiempo ser el modelo de aceptacion de una sociedad y ser el modelo de aceptacion de si misma, descubre que ella no es ni quiere ser eso, sin embargo aun no es capaz de convencerse y actuar para ser quien es realmente. Llega el estimulo a su interior disfrazado de hombre y este hecho le permite descubrirse a si misma, adentrarse en sus emociones, aquellas que estuvieron por mucho tiempo reprimidas y que ahora fluyen y se liberan lentamente, la pena , la rabia, el desconsuelo, el dolor de una infanzia arremeten contra una mujer forjada al alero de una estructura social y moral que la oprimia, y la habia mantenido hasta ahora en una asfixia permanente. Con el amor se revela y abre las puertas de sus emociones, las deja salir, las degusta, las palpa y se emborracha de ellas, prueba lo permitido y aquello que es ilicito tambien, quiere llegar a todos los rincones de su ser interior sin importar los costos, ni los prejuicios, ni esa sociedad impositiva, ni la falta de cariño. Un vez satisfecha de este hambre incontenibile, entonces es capaz de ver quien es, y quien quiere ser.

Dopo tanto tempo che lei è stata un modello di accettazione di una società e un modello di se stessa, scopre che non è e non vuole essere questo, tuttavia non è ancora capace di convincersi ad agire per quello che è realmente. Arriva al suo interno lo stimolo travestito da uomo e questo fatto le permette di scoprire se stessa, entrare nelle sue emozioni, quelle che sono rimaste per molto tempo represse e che ora fluiscono e si liberano lentamente: il dolore, la rabbia, lo sconforto, il dolore di un’infanzia colpiscono una donna formata all’ombra di una struttura sociale e morale che la opprimeva, e la aveva mantenuta in una situazione di asfissia continua. Con l’amore lei si rivela a se stessa e apre la porta delle sue emozioni, le lascia salire, le gusta, le palpa e si ubriaca di esse, prova ciò che è consentito e ciò che è proibito, vuole arrivare a tutti gli angoli del suo essere interiore, senza riguardo ai costi e ai pregiudizi, né alla società impositiva né alla mancanza d’affetto. Una volta soddisfatta la fame incontenibile, solo allora è capace di vedere chi è e chi vuole essere.

***

IN ONORE DI KATHARINA BLUM

Kapace
e Audace,
benché Timida
Hai
Avventurosamente
Riscattato
l’Impotenza
Nascosta
nell’Anima

Kontrollati
Ancora un poco:
Tenacemente
Hai
Affrontato
il Repressore
Infame.
Che Non
si Azzardi allora
ad aBbruttire
L’onore
del tuo Ultimo
a More!

***

Rio Branco, 18 Novembre 2003

Che dire di un viaggio così lungamente sognato e faticosamente ottenuto. Ci siamo! Abbiamo raggiunto Rio Branco dopo un volo eterno da S. Paolo con scalo a: Brasilia, Londrina, Porto Velio. Sotto di noi il mare verde, “la mata amazzonica”, si estende a perdita d’occhio rotta a tratti da macchie marroni e colonne di fumo sempre più frequenti, sempre più intense.

A S. Paolo ieri, fra un volo e l’altro, siamo riusciti anche a pranzare con Mario e Maria (maccheroncini al ragù e cotoletta); ma soprattutto ho potuto respirare nuovamente quella affettuosa accoglienza e quella tipica cultura da immigrante che mi ha fatto tornare qui dopo 10 anni.

Siamo a Rio Branco ora ospiti del Convento dei Servi di Maria; ieri sera all’aeroporto ci ha accolto Padre Ettore riversando su di noi un fiume di parole e le sue ansie del momento: due famiglie di Sena Madureira si sono fronteggiate. Madeireiros gli uni, siringueiros gli altri, lo scontro è degenerato, due persone sono morte accoltellate, altre due sono piantonate dalla polizia all’ospedale. Poi siamo stati interrotti da una gentile Hostess vestita di rosso che ci ha chiesto se eravamo vaccinati contro il Dengue.

Eccoci in Amazzonia al confine con la civiltà o forse, al contrario, immersi nella più vera civiltà non più protetta da falsi moralismi: amorale e panteistica.

Sono le 6,30 del mattino, dal mio letto nella camera del convento sento gli uccellini cantare fuori dalla finestra, come a Stiore, ma non ne riconosco la specie. Sono finalmente serena….

***

Quella volta la stretta allo stomaco si sciolse, come l’ago della bilancia
come l’acqua che scorre;
la foto guardava in silenzio
(giocando brutti scherzi?).
E il pensiero impazzito non sapeva più a che santo votarsi.
Le parole correvano sul
campo in un’aratura
continua incessante
cessando d’esser sensate.
- Non hai tempo – disse.
Piegando il capo, si raccolse.
E dormì molti anni prima
della
fine.

***

ETA'

Circolante danza notturno
il timore autunnale lento
e soffuso sul volto morbido.

***

- Mamma, qual è stato il più bel giorno della tua vita?
Due giorni prima fra me e me mi ero fatta la stessa domanda.
Stupita mi resi conto di come le sensazioni che conducono a un pensiero abbiano risvolti nella realtà, nella propria realtà.
Avevamo tredici anni circa, Carla uno di più. Era una domenica pomeriggio col sole, di maggio. Con Nicoletta e Cristina dopo il pranzo ci incamminammo spensierate e senza meta verso il centro cittadino, allorché entrammo nel parco di Villa delle Rose di via Saragozza. Allora ci rendemmo conto che in verità volevamo andare a Villa Spada che stava proprio lì di fianco. Così ci sentimmo molto furbe quando lungo la siepe che costeggiava il perimetro del parco trovammo un buco nella rete di recinzione.
Una alla volta passammo al di là del confine, ma Nicoletta che era molto alta e robusta aveva qualche difficoltà a superarlo. Lei imperturbabile non si scoraggiò perché si allontanò da quel punto, prese la rincorsa e scavalcò insieme la siepe e la rete. Arrivò al di là a peso morto come un sacco di patate e con un tonfo incredibile. Noi ragazze rimanemmo in silenzio sbalordite e attonite temendo che si fosse fatta male, ma lei tranquillamente si tirò su come se niente fosse e si pulì le mani alla meglio dopo averle con forza appoggiate sull’asfalto. Allora partì una risata incredibile fra noi tutte ma le sorprese non erano ancora finite.
Facemmo in tempo a guardarci intorno ed ecco comparire una suora:
- Che fate lì ragazze?
E una di noi di rimando:
– Pensavamo di essere a Villa Spada.
- Ma no, questo è il sentiero che sale al monastero delle suore cappuccine. Scendete fino a via Saragozza e girate a sinistra fino al cancello di ingresso a Villa Spada.
Così facemmo.
Era di domenica pomeriggio con il sole, la primavera, le siepi verdi, gli alberi fronzosi: ricordo tanta serenità, voglia di scoprire il mondo, non consapevolezza di noi. Leggerezza. Risate.

***

PADRE

Mancanza, vuoto, dolore,
Ricordi di dolcezza, affetto, protezione.
Cancellate incomprensioni e discussioni.
Il grande vuoto che la sua perdita mi ha lasciato.
Nostalgia.

***

Qualsiasi cosa
ma che sia nuova
una sorpresa
indifesa e indomita
come umida creatura
appena partorita
Qualsiasi cosa
ma che sia antica
fatta di terra
da sempre conosciuta

***

Se quel telefono avesse smesso di suonare. Stava già abbastanza male senza bisogno di un telefono che le trillava nelle orecchie tutta la notte.
Quella pizzeria da asporto l’avevano aperta da un mese proprio sotto il suo appartamento… e il telefono squillava fino all’una di notte.
Erano muri sottili, dove potevi sentire tutto… quasi anche le ordinazioni dei clienti che entravano nel locale.
Ma che potevano sapere gli altri che stava male ormai da molti giorni. Un male non fisico ma la sua anima, sì la sua anima era piena di dolore. Beh… veramente anche il suo corpo ne stava risentendo.
Dolore… quell’antico dolore. Petto… un opprimente peso al petto e un’ombra scura.
Nessuno la vedeva… Era difficile parlare di un’ombra scura. Male di pancia, mal di schiena, male di qua, male di là… Ma l’ombra… Come si faceva a dire: “Io ho un’ombra”?
“Ma cosa ti senti?” ti chiedono. Iniziavi a spiegare e poi… difficile trovare le parole, difficile descrivere le sensazioni.
Il telefono continua a squillare… Chissà che pizza vorranno mangiare ora questi? A nessuno importa della mia ombra. Dolore, ecco sì dolore e poi blocco, ecco sì blocco e poi...
E poi annego nelle coperte. Mi sembra di affogarci dentro. Come stare nel pantano, che ti avvolge.
E la tua pelle e i tuoi pori aspirano quel pantano. Il pantano è dentro o fuori?
Ehi voi là fuori… lo sapete… io sono qui!
Perché non squilla il mio telefono? Qualcuno che sa della mia ombra. Molti sanno della mia ombra.
Ma perché nessuno mi porta via quell’ombra!
Perché qualcuno non sale, suona il campanello e ti dice: “Sono qui e sono venuto a portarti via sul mio cavallo… bianco… e saremo… per sempre… felici e contenti. La tua ombra può anche rimanere qui.” Perché la gente invece di comprarsi la pizza da asporto non invade la mia camera, salta tutta sul mio letto e mi abbraccia? Magari mangiamo una grande enorme pizza tutti insieme…
Ma poi… se ne andranno… non possono rimanere a mangiare pizza sempre con me. Poi dopo un po’ probabilmente sarei io a andarmene.
Forse che ci debba pensare io a quell’ombra?
Potrei portarla a mangiare una pizza!

***

Pioppi alti
Lunghi rami
Spellati dal sole, dal vento

si inarcano
agitando i bracci
di qua e di là

cercando forse qualcosa di smarrito
oppure sapendo
che lì, in quel vento
c’è un profumo,
un’essenza preziosa.

Così ondeggiano
E si spingono
Nel timore che, nel frattempo,
l’arcano scompaia.

***

PER IL MIO BAMBINO

Ronzante
rompino rutelle

butta budelle bitolle.

***

… Se quel telefono avesse smesso di suonare stava già abbastanza male senza bisogno di un telefono che gli trillava nelle orecchie tutta notte…

Non era una musica dolce, una voce che parla d’amore, ma anche così quello strumento lascia il vuoto di un non vissuto: in questo momento tu non sei qui con me a testimoniare il mio Amore.
Se tu non esistessi telefono?!
Sarei solo a sentire il mio vuoto che tanto temo. Come sopra uno strapiombo quella vista mi attrae e mi spaventa. Non saprò mai dirti l’ebbrezza del volo, i rumori nel buio del pozzo dove solo sarei con il battere forte del cuore.
Ma cosa ci faccio con un cuore che batte nel fondo di un pozzo?
Senza darmela a gambe sentirei cosa provano gli abitanti invisibili quando l’ombra del piede è già arrivata a schiacciarli.
Li potrei supplicare di risparmiarmi perché ho un bimbo a casa e tante cose da fare, e ho tanta paura, chissà se loro mi ascoltano?
Quell’amato e tanto odiato telefono mi ricorda che tu non ci sei, perché se tu ci fossi potrei buttarlo via!

Il mio corpo si dilata in queste foglie ingiallite, nella terra umida, nel grigio del cielo.
All’unisono scandiscono il tempo presente, l’autunno del cuore.
Inesorabili procedono le stagioni verso l’inverno, sperando non sia troppo, il freddo.
Caro albero dai lunghi rami a me cari, ormai spogli, tristemente mi accingo a tagliarne le esili cime e soffro a guardarti ormai monco.
Se neve, e non gelo, ti regalerà l’inverno, potrà le ferite, segnate da questa mano, curare e sperare che al primo raggio di sole la linfa, dalle profondità della terra, salga e raggiunga il cielo.
Al tuo risveglio pieno di luce voglio apparire e tu con gli occhi esclamerai: “Che bello!” e mi abbraccerai sotto le fronde fresche.

***

DESIDERIO

Abbandono ogni
traccia del mio passato
quello triste, quello ingrato
il respiro corto
del mio corpo morto
per abbracciare il vivo.
Abbraccio vero.
So che ora puoi vedermi
per davvero.
Il tuo sguardo varca
i miei occhi
per raggiungermi
dove sono.
E la mia pelle
ha il profumo delle fragole
della primavera
che va oltre l’inverno.
Sogno i tuoi occhi
sogno il tuo corpo
che incontrano le mie mani
la loro brama
di accarezzarti
di travolgerti
in gesti mai compiuti.
Io ti desidero
con tutta me stessa
e ti guardo
senza vergogna di me.
Vorrei contare
per te
vorrei farti danzare
vorrei che il mio canto
potesse raggiungerti e scuoterti.
Ecco...! Scuoterti.
Vorrei che le parole
volassero e potessero toccarti
oltre il corpo
oltre la mente
solo – i battiti.
Svelati i sentimenti
svelati gli intenti
desideri profondi
che fanno male.

***

Ho ucciso quel giornalista.
Dopo aver letto il suo articolo mi è esplosa una rabbia immensa, una rabbia trattenuta ed accumulata in anni di vita stretta ed oppressa in una gabbia di provincialismo, perbenismo, ipocrisia, maschilismo.
In quell’articolo c’era tutto quello che ho subito per decenni.
Quel giornalista incarnava tutto ciò che ho sempre odiato.

***

Ora tra bianco e parete
sento morbido il tocco.
Salti d’ombra circolare.

***

ELISABETTA

Insieme
una carezza calda
è il mio nome
scorre la collana di perle
e si accende
viva davanti a me.

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