Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


lunedì 27 febbraio 2012

Prospettive concettuali proustiane




Giuseppe Di Giacomo, docente di Estetica, La Sapienza, Università di Roma

In Jean Santeuil Proust dice una cosa veramente importante riferendosi a Monet – che Proust ha sempre stimato. Monet era l’impressionista per eccellenza. È stato apprezzato, ad esempio, da Cézanne per il quale la pittura non deve affidarsi all’occhio ma all’intelletto: deve cogliere le figure geometriche sottese alla visività di quello che vediamo e, a questo proposito, parla del cono, del parallelepipedo, del cubo e del cerchio. Però Cézanne diceva: “È vero che Monet è soltanto un occhio che vede, ma che occhio!”.


Una forte impressione Monet l’ha suscitata anche su un pittore come Malevič: un pittore dissacratorio nei confronti dell’arte del passato. Quando Malevič si esprime sul Davide di Michelangelo parla di un orrore, mentre per Monet le cose non stanno così, soprattutto dell’ultimo Monet, quello delle Ninfee, dove il colore è predominante. Il colore predomina sulla forma, nel senso che non è definito, limitato dalla forma, ma è il colore stesso a generare forme.

Anche Proust stimava moltissimo Monet e proprio nel Jean Santeuil fa riferimento alla serie sulla Cattedrale di Rouen. Qui a essere veramente importante non è tanto il fatto che la luce che si rifletta sulle pareti della cattedrale quanto il fatto che è il colore, nei suoi vari aspetti, a generare la visibilità della cattedrale stessa: è il colore che cambia, che genera. Non c’è, quindi, una parete che accoglie il colore ma è piuttosto il colore che determina la parete. E’ questa la grandezza di Monet. A questo proposito, Proust sostiene che quel che conta non è affatto il riuscire a dipingere ciò che si vede; non è questo l’importante. Come, del resto, non lo è il dipingere ciò che non si vede. Proust, in questo senso, afferma che la pittura non deve avere per oggetto né il visibile né l’invisibile come tali. La pittura deve essere piuttosto in grado di “mostrare” quello che si vede. Questo è il punto fondamentale, in Proust, rispetto a Monet e alla pittura in generale: mostrare non già quello che si vede o quello che non si vede, bensì ‘che’ si vede. Che noi vediamo, che si veda. Perché è così importante? Perché, nell’affermare questo, Proust si sta riferendo a qualcosa che deve essere proprio del pittore. Questi non si affida tanto al vedere né ad un intelligere, a un intelletto cioè che dietro l’apparenza pretenda di cogliere una pretesa essenza. Il compito della pittura non è, insomma, quello di riprodurre il visibile in quanto tale né quello di cogliere “dietro” il visibile, qualche cosa che il visibile stesso non ci restituisce, ma che l’intelletto in qualche modo riesce a cogliere. Il vero pittore, invece, deve mettere in luce, deve mostrare, deve fare apparire il fatto stesso che noi vediamo, che qualcosa cioè si fa vedere, che qualcosa ci appare. Ed è proprio questo ‘che qualcosa appare’ a far sì che quanto appunto appare non sia alcunché di previsto né di prevedibile. È quello che poi Merleau-Ponty definirà, dal suo punto di vista, la dimensione della meraviglia che il pittore è in grado di generare.

La pittura, in questo senso, ci fa vedere qualche cosa che noi non avevamo previsto; ecco il ‘che vediamo’. Evidentemente abbiamo a che fare con qualcosa di non prevedibile.

Perché è così importante? Proust lo dice nel Jean Santeuil. Più in generale, se ci si sposta lungo la Recherche, ci sono dei riferimenti forti, diretti, alla pittura attraverso quel pittore inventato di Proust che è Elstir. Ci sono pagine e pagine dedicate alla pittura di Elstir, a certi quadri di Elstir dove a essere dominante è il fatto che noi non siamo in grado, visibilmente, di distinguere tra il mare e la terra. A ben vedere, dice Proust: “Più li guardavo e più quello che doveva essere il mare era la terra e la terra era invece il mare”. C’è uno spostamento costante; qualcosa appariva in un certo modo e, invece, finiva col rivelarsi in un altro modo. È evidente che, qui, Proust sta parlando di quadri, ma parla anche di altro: del fatto, appunto, che qualcosa – ma possiamo sostituire al qualcosa il qualcuno – appaia in un modo e invece è in un altro modo. La Recherche lo racconta bene, a partire dalla Odette di Swann, che è “qualcuno” e che poi, invece, è “qualche altra persona”, ma lo stesso vale per la figura di Albertine, che appunto appare in un modo e poi si rivela in un altro modo. Questa compenetrazione degli opposti è il cuore stesso della pittura di Elstir.

Al di là poi di questi riferimenti esplicitamente pittorici, come Monet – pittore realmente esistente – o Elstir – pittore invece inventato, un po’ come accade nel caso dello scrittore Bergotte –, quello che può essere utile trarre da Proust è che lui parla di un vedere che è sempre duplice: parla di una doppia vista, oppure di una prima vista e di una “seconda vista”. C’è arte, quindi, se e solo abbiamo a che fare con questa “doppia vista”. L’artista, che sia scrittore o pittore, è tale proprio se riesce a cogliere dietro quello che vede, o meglio, se riesce a cogliere “attraverso” quello che vede, se la sua vista cioè riesce ad attraversare il visibile; se il suo, quindi, è un vero e proprio “guardare-attraverso”. A essere in gioco, quindi, non è tanto un guardare sic et simpliciter, bensì un “guardare-attraverso” il visibile per far emergere qualche cosa che a prima vista non si vede, e che in generale gli altri non vedono. Si tratta di quella capacità della “doppia vista” di cui lo stesso Wittgenstein si augurava che il filosofo fosse dotato. Il filosofo come l’artista. In uno dei suoi Pensieri diversi, del 1931, Wittgenstein scrive infatti: “Possa Dio dare al filosofo uno sguardo acuto per vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti ma che non tutti vedono”. Ecco il punto: ciò che è sotto gli occhi di tutti. Se l’artista semplicemente si attenesse a ciò che sta sotto gli occhi di tutti, sarebbe un artista riproduttivo, laddove la vera arte – che sia verbale o pittorica – deve piuttosto essere non già riproduttiva bensì produttiva. Vuol dire che deve far produrre da ciò che vede qualcosa che non si vede. Deve far sì che quello che si vede produca qualcosa che apparentemente, a una prima lettura, a una prima visione, non si vede. Ed è proprio perché a emergere è quest’ “altra cosa”, l’altro della cosa che la cosa stessa non mostra ad una prima visione, che la cosa stessa è in grado di sorprenderci. Vediamo la cosa in un certo modo e poi, invece, essa ci appare in un altro modo. Questo rapporto tra il vedere in un modo e poi vedere con maggiore attenzione facendo sì che emerga qualche altra cosa, e quindi il rapporto tra il vedere e il vedere attraverso – tra la prima vista e la seconda vista – è la medesima relazione che c’è, in Proust, tra la memoria volontaria e la memoria involontaria. Perché il vedere funziona come la memoria volontaria: anche il vedere è subordinato alla volontà. Voglio vedere qualche cosa e lo vedo, così come ricordo quando voglio ricordare qualcosa. Laddove invece la memoria involontaria è quella che si manifesta quando qualcosa, improvvisamente, ci assale.

Questa doppia capacità di vedere, questa seconda vista, fa sì che quello che sembrava ovvio non sia affatto così ovvio. L’arte ha a che fare, appunto, con il non ovvio; è proprio questo il punto fondamentale: la non ovvietà.

Del resto, lo sappiamo, era questo il fine di Marcel Proust che voleva diventare scrittore: amava Bergotte che univa in sè lo stile di Balzac e quello di Flaubert, una sorta di commistione. Era bravo il giovane Marcel Proust a scrivere. Tutti lo apprezzavano: i parenti, gli amici. La sua bravura consisteva nel fatto che era capace di descrivere le cose esattamente come le vedeva e si poteva quindi constatare questa sua capacità raffinatissima di descrivere le cose. Ma Proust non era contento. Diceva: “Non è questo che deve fare l’artista”. Cercava qualche altra cosa. Quest’altra cosa gli si comincerà a manifestare quando, dietro a ciò che appare ai suoi occhi, comincia a rivelarsi appunto qualche altra cosa, in modo tale da fargli credere che poi il pittore, lo scrittore, non ha tanto bisogno degli occhi. Questo qualcosa d’altro non si affida alla visione ottico-retinica, tanto che per Proust può e deve valere quello che Joyce afferma nelle prime pagine dell’Ulisse: “Chiudi gli occhi e vedrai”. Del resto la dimensione epifanica di cui, appunto, parla Joyce appartiene alla stessa famiglia della “memoria involontaria” di Proust. “Chiudi gli occhi e vedrai”. Appare qualche cosa d’altro. L’altro, l’epifania, il manifestarsi. Questo è quello che l’artista deve essere in grado di mostrare. L’altro di ciò che noi vediamo. Per fare questo dobbiamo concentrare la nostra attenzione, dice Proust, su questo qualche cosa che abbiamo davanti agli occhi; concentrarla tanto che, a ben vedere, sembra che noi ci limitiamo a guardare ma, se la cosa l’abbiamo già vista, perché dobbiamo continuare a guardarla?

Sto pensando ad un esempio famosissimo che è quello della passeggiata fatta da Proust con un amico, Reynaldo Hahn, all’interno di un giardino dove c’è un roseto. L’episodio si chiama Le Rose del Bengala. Passando davanti a questo roseto, improvvisamente, Proust si ferma a guardarlo e chiede all’amico se per favore lo può lasciare solo. L’amico prosegue, ritorna e ritrova Proust immobile a guardare il roseto mordicchiandosi il labbro superiore, come se l’amico non esistesse. Lui continua a girare finché ad un certo punto Proust finisce di guardare e continua la passeggiata. Che cos’è che stava guardando? Le rose le aveva già viste. Evidentemente aspettava che le rose, potremmo dire, si aprissero, per manifestare – con la dimensione epifanica – qualche cosa che la vista come tale non era in grado di cogliere. Per parlargli. Questo è molto importante perché Proust sta dicendo che – e sarà fondamentale nella memoria involontaria – nel caso dell’arte a essere fondamentale non è tanto il vedere ma piuttosto la capacità di cogliere nel vedere, attraverso il vedere, qualche altra cosa. Il significato di una tale volontà di cogliere attraverso il vedere qualche altra cosa sta in questo: il vedere implica sempre una netta separazione tra il soggetto e l’oggetto: il soggetto vede l’oggetto, dove “oggetto” è da tradurre con il termine tedesco Gegenstand, ossia ciò che sta “di contro” al soggetto; nell’arte, invece, non c’è un soggetto che vede un oggetto posto di fronte, altrimenti avremmo a che fare con una visione meramente riproduttiva, il che non servirebbe a molto. Nella vera arte, piuttosto, il soggetto guarda, sì, l’oggetto ma lo guarda fino al punto che poi l’oggetto stesso, a sua volta, “ri-guarda” il soggetto. È esattamente quello che sta facendo Proust di fronte alle rose del Bengala: le sta guardando aspettando che queste si aprano, si dischiudano e lo guardino. In questo senso, non è più Proust a guardare ma Proust guarda un qualcosa che a sua volta lo riguarda. Questo è il punto fondamentale: si tratta di un guardare che è insieme un essere riguardati.

È quanto non soltanto teorizza Merleau-Ponty in L’occhio e lo spirito, ma è quanto lo stesso Merleau-Ponty dice a proposito di Cézanne. Il pittore, com’è noto, dipinge la montagna di Sainte-Victoire un centinaio di volte – a olio, ad acquarello, la disegna a carboncino, a matita –, ma non è mai soddisfatto: non c’è mai una resa definitiva. Ci sarebbe una resa definitiva se appunto ci si affidasse soltanto agli occhi, se gli occhi cioè fossero veramente lo strumento della vista e se, quindi, grazie agli occhi noi potessimo effettivamente vedere “come stanno le cose”. In questo caso, il disegno sarebbe in grado di rendere ciò che l’occhio vede. E invece, dice Cézanne, la verità è che: “quando mi metto a guardare la montagna di Sainte-Victoire mi accorgo che la montagna mi sta guardando”. Che mi sta guardando. Cosa vuol dire? Vuol dire che non posso trattare la montagna come un oggetto da definire una volta per tutte, dal momento che sento, mentre appunto la guardo, di essere guardato, tanto che non riesco mai a definirla totalmente. Mi posso avvicinare, sì, ma non posso mai definirla totalmente. In questo senso, c’è uno scambio di sguardi, come avviene nel dialogo. Il dialogo, infatti, è diverso dal monologo esattamente per questo: sono due i soggetti in gioco, mentre nel monologo l’altro è trattato come un oggetto che deve soltanto accettare la verità; insomma, se nel monologo c’è una verità di cui uno è portatore, invece nel dialogo non c’è nessuna verità già data. È un po’ questo il senso della pittura.

In Proust troviamo esattamente questa dimensione: la dimensione dell’attesa: si tratta di attendere che l’altro si manifesti, che l’altro parli. E allora il dipingere, come lo scrivere, non è più riproduttivo, ma produttivo.

Analizziamolo meglio attraverso il tema della memoria.

La memoria volontaria è legata alla nostra volontà e al nostro intelletto; ricordiamo quello che vogliamo ricordare. Quello che ci interessa, però, è la memoria involontaria. Come accade, cosa accade in questo caso? Nella memoria volontaria si ha sostanzialmente una dimensione temporale che si svolge secondo una linea retta: passato, presente, futuro. È il presente che ricorda il passato. Nella memoria involontaria, invece, le cose non stanno più così perché più che di linearità dobbiamo parlare in questo caso di giustapposizioni, di momenti che si giustappongono. Di episodi della memoria involontaria ce ne sono molti nella Recherche proustiana. Famoso è il primo, quello della madeleine, e poi ne avremo un gruppo importante nella seconda parte dell’ultimo volume, nella matinée a casa dei principi Guermantes. Che nel primo volume appaia già questa memoria involontaria ci dice senz’altro qualcosa ma ci dice ancora poco; tale memoria è apparsa, sì, ma non è stata ancora sufficiente per far sì che Proust capisse davvero quale fosse il suo compito d’artista... Perché, in fondo, tutta la Recherche è una ricerca del modo in cui diventare artisti. Alla fine, però, egli capisce che cosa deve fare per essere artista; eppure ne aveva avuto un sentore iniziale, più di tremila pagine prima. Aveva però dato poco ascolto a questa dimensione che invece era già importante. Ma vediamo meglio di che si tratta. In che consiste questa forza della memoria involontaria? È innanzitutto una giustapposizione di tempi. Non c’è, quindi, una vera e propria identità: non è che il passato e il presente facciano tutt’uno nel senso che restano indistinti. I due piani sono invece distinti, ma non appartengono affatto a dimensioni diverse: sono giustapposti in modo tale che sono, per così dire, distinti nell’indistinzione; sono, cioè, distinti nell’identità: appaiono nello stesso momento. Così, nel caso della madeleine, Parigi e Combray sono colte nello stesso momento; la dimensione spaziale e la dimensione temporale finiscono così con l’identificarsi. Che cosa vuol dire? Come si manifesta tutto ciò? Prendiamo il caso più noto della madeleine. Per Proust, ovviamente, la memoria involontaria non è soltanto visiva. Anzi, in generale, in Proust, essa è tattile, gustativa, olfattiva, non necessariamente visiva. Proust afferma: “Mi appare improvvisamente Combray”. Prima ad apparire è lui stesso con i genitori che vanno in chiesa, poi dalla chiesa vanno dalla zia Léonie, poi arriva la badante che gli porta i biscotti che piacciono al bambino... ma a essere decisivo è il fatto che ad apparirgli, dice Proust, è Combray nella sua totalità, con il suo fiume, i suoi alberi, i suoi giardini, le sue case. “Tutta Combray, come non l’avevo mai vista, mai sperimentata”. Nell’ultimo volume, invece, scendendo dalla carrozza che lo porta nel cortile dei Principi di Guermantes, invitato al concerto a colazione, egli sta scivolando e, improvvisamente, si ricorda che qualcosa del genere gli era già capitato molti decenni prima, quando con la madre era andato a Venezia: erano entrati a San Marco e si trovavano nella cappella a destra dove c’è il fonte battesimale e, lì, Proust bambino stava scivolando e viene trattenuto dalla madre. In questo caso, a comparire è il fonte battesimale, San Marco, poi piazza San Marco e finisce così con l’apparirgli tutta Venezia, come non l’aveva mai potuta vedere. Nessuno vede mai tutto, si vede sempre qualcosa di parziale.

Evidentemente, allora, la memoria involontaria ha a che fare con qualcosa di cui noi non abbiamo fatto esperienza. Il che vuol dire che la memoria involontaria, a differenza della memoria volontaria non è riproduttiva. La memoria volontaria, infatti, riproduce quello che è effettivamente accaduto. La memoria involontaria – per questa sua capacità di evocare qualche cosa che noi non abbiamo mai sperimentato – ci fa vedere qualcosa che non avevamo visto prima. Non riproduce, bensì produce. La memoria involontaria, insomma, è una memoria creativa. Ecco perché è fondamentale per l’opera d’arte. Un’opera artistica, se è un’opera creativa, non è soltanto riproduttiva. Questo Proust lo ha ben chiaro, ma ce l’hanno ben chiaro tutti.

Malevič, questo, lo ribadisce più volte, in modo ossessivo. La pittura non deve riprodurre. Addirittura egli dice: “La pittura moderna nasce con il Cubismo e il Futurismo ma, a ben vedere, anche il Futurismo e il Cubismo in parte sono riproduttivi”. E lo sono perché hanno a che fare ancora con oggetti: oggetti scomposti nel caso del Cubismo e accelerati, dinamizzati, nel caso del Futurismo; e sarà appunto soltanto il Suprematismo a fare il grande salto, creando ex nihilo, dal niente.

Questo tema della memoria involontaria dice, attraverso la dimensione della giustapposizione, che l’arte si può nutrire, si deve nutrire di questa dimensione involontaria perché, soltanto nutrendosi di essa e non affidandosi invece alla volontarietà della memoria, può essere creativa. Creativa, appunto affidandosi a questa involontarietà. Qualcosa accade come non l’avevamo mai vista. L’arte, insomma, dovrebbe rendere questo qualche cosa che non abbiamo mai visto. Ma può renderlo? Può la scrittura rendere quella totalità che noi non abbiamo mai potuto sperimentare e che invece la memoria involontaria ci fa sentire? Noi possiamo descrivere quello che sentiamo? No. In sostanza Proust ci sta dicendo che la memoria involontaria ci fa sentire e non vedere, dove vedere equivale a intelligere. Dai greci in poi, da Platone in poi, l’occhio significa non a caso l’intelletto. Vale a questo proposito il detto di Nietzsche secondo cui a essere vero è non già che noi “sappiamo perché vediamo” ma, al contrario, che noi “vediamo perché sappiamo”. Dove “sapere” viene da sapio ed equivale quindi a un vero e proprio sentire: il sentire di cui parla Kant nella terza Critica, e che sta alla base di ogni operare artistico. Il sentire implica, a differenza del vedere, che soggetto e oggetto non siano distinti perché, se sento qualche cosa, lo sento e, insieme, sento di sentire qualche cosa: mi sento mentre appunto sento qualcosa. In questo caso, non sono affatto separato da questo qualche cosa che sento. Questa dimensione del superamento del paradigma cartesiano, che consiste appunto nel dualismo soggetto-oggetto, è di grande importanza. Nel caso dell’arte, tale dualismo è superato totalmente.

Cosa fa l’arte? L’arte non deve semplicemente descrivere il particolare ma deve piuttosto farci sentire, attraverso il particolare, l’altro del particolare. Quell’altro che, appunto, è qualche cosa che noi creiamo, che facciamo emergere, e che non possiamo riprodurre perché non è appunto un dato; è piuttosto qualcosa che appare ma che, nel momento in cui proviamo a descriverlo, ci rendiamo conto che non siamo in grado di farlo. Lo dobbiamo quindi sentire. È come se nel particolare dovessimo sentire, e far sentire, l’altro nel particolare. Questo è un altro punto importante per Proust e ha modo, Proust, di parlarci di questo qualche cosa che noi cogliamo e che, nel coglierlo, ci sfugge continuamente. È quanto ritroviamo, per altri versi – perché poi in Proust tutto è concatenato –, nella figura di Albertine. Albertine, a un certo punto, viene definita come la “grande Dea del Tempo”. E non è un caso che, quando Proust saprà, scoprirà, che Albertine è morta, sarà proprio questa una delle condizioni fondamentali per lui per poter scrivere. Perché la scrittura deve vincere il tempo, l’opera d’arte deve vincere il tempo, ma in che modo? Superandolo del tutto? Abbandonandolo del tutto? O non è forse vero che l’opera d’arte deve essere in grado di cogliere ancora una volta nel tempo ciò che non appartiene al tempo, ciò che sfugge al tempo? Ma il punto è che questa dimensione extratemporale può essere colta soltanto nella temporalità. Quando Albertine muore, a morire è appunto la grande Dea del Tempo e allora lui, Proust, è in grado finalmente di realizzare un’opera con la quale, forse, potrà vincere il tempo. Forse, perché sappiamo poi come il romanzo si conclude: “Non ce la potrò fare visto che io sono nel tempo”.

Ma torniamo al tema del vedere, del percepire qualche cosa che si dà e insieme si nasconde, nel senso che si offre e si ritrae nello stesso tempo. C’è, a questo proposito, un episodio famoso: quando Marcel, per la prima volta, va a Balbec (località sul mare del Nord, nella Normandia dove lui poi conosce il pittore Elstir e dove conosce, tra l’altro, Albertine). Va con la nonna e sono in treno. Il viaggio è lungo, da Parigi e devono trascorrere tutta la notte in treno. Si fa l’alba e lui vede, improvvisamente, dal finestrino della carrozza in cui sta con la nonna, affiorare l’alba, i colori dell’alba. Rimane incantato da questi colori. Soltanto che il treno gira, fa una curva e l’alba si ripiomba nelle tenebre, nel buio. Si accorge così che, invece, sui finestrini del corridoio, nella parte opposta, l’alba si può ancora vedere. Allora corre per riacciuffare l’alba, ma il treno gira e allora corre un’altra volta verso il finestrino della carrozza: corre per afferrare qualche cosa che continuamente gli sfugge. La totalità dell’alba, insomma, non può essere colta se non mentre si dà, di volta in volta, vale a dire sempre e solo parzialmente. È esattamente quello che capita con la totalità, ma potremmo anche dire con il Senso. L’opera cerca, sì, il Senso ma questo Senso non si dà mai una volta per tutte.

Nessun commento:

Posta un commento

Archivio blog