Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


sabato 4 febbraio 2012

Il concetto di bellezza e l'arte del Novecento. (Incontro tenuto il 06/09/2011 al CostArena di Bologna, regia di Graziano Ferrari con la collaborazione di TenTeatro).



Prima lettura
(Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli)


La bellezza, che forse non bisogna separare dall'arte, non riguarda tanto l'oggetto quanto la rappresentazione. In questo, e in nessun altro modo, l'arte supera il brutto senza sfuggirlo...


Si abbandona il mondo di qua e si costruisce in un'altra regione alla quale si può pienamente assentire. Astrazione. Il freddo romanticismo di questo stile senza pathos è straordinario. Quanto più spaventoso questo mondo (com'è appunto oggi) tanto più astratta l'arte. Un mondo felice, invece, genera un'arte volta all'al di qua...



La creazione vive come genesi sotto la superficie visibile dell'opera. Tutti coloro che coltivano lo spirito sono capaci di percorrere a ritroso il processo della creazione, soltanto i creatori lo percorrono in avanti...


E ogni figurazione, ogni combinazione avrà la sua particolare espressione costruttiva, ogni figura il suo volto, la sua fisionomia. Le figure oggettive ci guardano, ilari e severe, più o meno tese, consolatrici o spaventevoli, sofferenti o sorridenti.


Esse ci guardano in tutte le antitesi della dimensione psichico-fisionomica, la cui gamma può estendersi fino al tragico o al comico...


Chi mai non vorrebbe, come artista, dimorare là, dove l'organo centrale d'ogni moto temporale e spaziale — si chiami esso cervello o cuore della creazione — determina
tutte le funzioni? Nel grembo della natura, nel fondo primordiale della creazione, dove è custodita la chiave segreta del tutto? Ma non a tutti è dato giungervi, e ognuno deve muoversi nella direzione segnata dal palpito del suo cuore. Cosi i nostri antipodi di ieri, gli impressionisti, avevano pienamente ragione di stabilire la dimora tra i getti delle radici, nel sottobosco delle quotidiane apparenze. Ma dal battito del nostro cuore, noi siamo sospinti più in giù, verso il fondo, l'origine. Ciò che da questo impulso nasce — si chiami come si vuole: sogno, idea, fantasia — è da prendere in seria considerazione solo se si unisca agli adeguati mezzi figurativi, in una sintesi integrale. Allora quelle stranezze divengono realtà — realtà dell'arte che rendono l'esistenza un po' più ampia di quanto comunemente non appaia: che esse non riproducono soltanto, con maggiore o minore vivacità, ciò che si è visto, ma rendono percepibili occulte visioni...


Che ne è oggi della rappresentazione? Distinguiamo la rappresentazione dalla immagine. L'immagine dà luogo a una molteplicità di rappresentazioni, letture, interpretazioni. Dunque, l'immagine cosa rappresenta? A cosa rimanda? Il suo rimandare è la questione centrale. Il rimando è il contenuto di verità dell'opera. Se rimandano a nulla, come nell'arte virtuale, allora le immagini non rappresentano. Se la relazione è il luogo che costituisce le cose, senza di essa le cose non sono più, si rimane senza mondo. Il computer è apparentemente nel mondo, ma un mondo virtuale, che sostituisce quello reale con immagini iperreali che non rappresentano qualcosa. Nel mondo virtuale l'immagine è priva di correlativo oggettivo è artificiale, fabbricata. Adorno nel Novecento per la prima volta parla della rappresentazione produttiva basata sulla somiglianza, cioè sulla corrispondenza tra immagine e realtà. Al punto che l'artista rappresenta la realtà così bene che noi diciamo, sembra vero. In quel caso la natura dell'opera viene coperta dal significato, dunque, l'opera nasconde la rappresentazione. La rappresentazione produttiva parte con Flaubert. Flaubert vuole scrivere un libro senza soggetto. Sarà poi tutta la letteratura del novecento a tentare di compiere questo tragitto. Cezanne è nella pittura l'autore che distrugge il soggetto, cioè, è interessato non alla storia, alla narrazione, al punto di vista, è, invece, assolutamente aderente all'oggetto. Cioè al percetto, al correlativo oggettivo. Potremmo dividere la rappresentazione in riproduttiva, produttiva e infine testimoniale. Il discorso tra riproduzione e produzione coinvolge naturalmente il linguaggio. Linguaggio e immagine possono o meno coincidere. Si tratta in fondo di due posizioni che fanno riferimento nella storia della filosofia al realismo e al nominalismo. Nel primo caso la lingua coincide con l'immagine e con la realtà, nel secondo la lingua è convenzionale, almeno per alcune sue parti, perciò può coincidere nei nomi, ma il resto è il risultato di abitudini e convenzioni. Nella corrispondenza tra arte e realtà è implicato un modello, un prototipo, un archetipo. Ad esempio, il primo modello ontologico e soggettivo sta nell'intenzione dell'artista. L'intenzione precede il prodotto. Wittgenstein però nelle ricerche logiche mette in crisi questa costruzione. Nega l'esistenza di archetipi soggettivi o oggettivi. Dunque, per lui non esiste un modello precedente. L'opera non può essere riferita a qualcosa di esterno. Adorno dice che l'immagine è una mimesi di se stessa. Somiglia, cioè, solo a se stessa. Cosa produce allora l'immagine e fa emergere dal suo interno? Questa è la produttività dell'opera. Corrispondenza molto stretta tra riproduzione e produzione. Cosa fa l'arte? Con la riproduzione rappresenta il visibile, con la produzione invece lo produce e lo rende visibile. Questo rapporto era già delineato tra Mosè e Aronne. Inizia così la storia della rappresentazione. Il Dio che parla con Mosè è irrappresentabile. Aronne, invece, dà al popolo la possibilità di rappresentarsi Dio per adorarlo, costruisce davanti l'altare l'immagine del vitello d'oro. Questa è la concezione riproduttiva. L'immagine è tutt'uno con il rappresentato. Adorare il totem dà luogo al potere delle immagini. Nietzsche sviluppa entrambe le rappresentazioni. Nel capitolo ottavo della nascita della tragedia gli uomini che vedono Dioniso sono trasformati in satiri. Questa incarnazione è quella di Aronne. Ma Nietzsche dice che la tragedia nasce dal rapporto tra Dioniso e Apollo. Inseparabili, perché Dioniso è l'irrappresentabile e Apollo cerca di dargli forma con la parola. Questa è la dimensione produttiva. Qualcosa si offre e qualcosa rimane irrappresentabile. I padri della chiesa difendono l'icona dagli iconoclasti perché Dio si fa uomo e Cristo è icona di Dio. Pare un rapporto rovesciato confronto al platonismo. Il modello, l'idea, non sono più da cercare nell'iperuranio ma in terra, qui troviamo l'icona che vi rinvia. Dunque l'icona non parla del padre ma del figlio, e se la veneriamo è perché nell'immagine, attraverso il figlio, vediamo il rimando al padre, cioè Dio. Adorno nella Teoria Estetica dice che l'avanguardia fa confusione tra arte e realtà. Per lui l'arte moderna deve essere autonoma dalla realtà. Deve implicare un autonomia, seppure non totale. Non deve, cioè, riprodurre la realtà, ma indicarla. Così l'arte è cosa tra le cose, non è più assoluta, non c'è più essenza da riprodurre, assoluto da mostrare. Non ci sono più né l'assoluto né la Bellezza con la b maiuscola. Anzi, ormai l'arte è sempre più fugace, caduca, effimera. Tuttavia la distingue dalle altre cose la forma. Grazie alla forma parla del mondo. Produce così dal suo interno, con la forma, una dimensione di verità. Cosa è la forma? La forma per Adorno è contenuto sedimentato. Non c'è differenza tra forma e contenuto, ma neanche identità totale. Produce la forma il suo contenuto sedimentandolo. La rappresentazione come testimonianza è la dimensione che Adorno attribuisce ad alcuni artisti come Kafka e Becket. Non c'è, nelle opere di questi autori, rappresentazione del mondo contemporaneo, invece se ne dà testimonianza. La testimonianza non si può riprodurre e neanche produrre, si può solo mostrare. E si può mostrare solo con la forma. Cosa testimonia in questo caso la rappresentazione? Testimonia ciò che è indicibile. Non c'è possibilità di capire il senso di Auschwitz. Per questo nel Novecento la dimensione artistica, cioè estetica, incapsula al suo interno la dimensione etica. Nell'opera d'arte non c'è intenzione, progettualità, l'autore può solo dire che ha fatto qualcosa senza precisa volontà. Per questo motivo il contenuto di verità dell'opera all'autore non è accessibile più che al lettore, essa si dà in entrambi come opinione. Il contenuto di verità è indicato da Benjamin quando parla di Goethe, l'autore non sa quale significato assumerà nel tempo la sua opera. L'opera d'arte va al di là delle intenzioni e stupisce lo stesso autore. Insomma, l'opera non appartiene all'ordine della prevedibilità. Paul Klee da bimbo spesso era portato dal nonno in osteria, qui appoggiava al tavolo di marmo la testa un poco annoiato, allora vedeva nelle vene del marmo materializzare delle linee che si costituivano in figure, disegni. Questa esperienza, ampliata all'inverosimile, costituisce la sua arte. Continuava a vedere materializzarsi figure che per gli altri erano invisibili. Il tempo della trama si struttura in passato, presente e futuro. Mettere in questione l'intenzione vuole dire mettere in questione la linearità del tempo, cioè la prevedibilità. Allora l'opera non si esaurisce nel vedere ma continua a svelarsi. Ciò che costituisce l'opera è il sensibile, è ciò che si vede in un quadro, è quello che si ascolta in una poesia. Ma nel sensibile c'è qualcosa che non è sensibile. Qualcosa che non è visibile nel visibile. Anche nella parola c'è qualcosa che è inudibile. Questo invisibile, questo inudibile, questo insensibile, è il segreto silenzioso che fa di un quadro o di una poesia un'opera d'arte. Il rapporto tra visibile e intellegibile nella cultura occidentale è dato dalla loro separazione. Dove c'è l'intellegibile c'è l'assoluto, l'universale. Il tempo fa paura perché la morte è la nostra condizione. Se non conta il mondo sensibile ma quello delle idee, come l'iperuranio per Platone o nel cristianesimo l'aldilà, allora alla fine ci attende il senso. Ma così l'arte diventa con la sua bellezza solo una forma consolatoria. Alla fine si capirà il senso di tutto. Dopo la morte ci sarà la vita vera. Questa è la concezione lineare del tempo. Concezione paolina della fine dei tempi. La fine che ci consola. Nell'arte e nella filosofia moderne la fine non c'è più. La consolazione della bellezza viene meno. Il telos, il senso finale non c'è più. L'Apocalisse si presenta come la fine dei tempi, cioè il punto in cui tutto assume senso. Il massimo teorico di questa concezione è Hegel con l'Assoluto. Lo Spirito Assoluto che scende in terra. Se pensiamo all'Ulisse di Joyce e lo confrontiamo a quello di Omero, il secondo viaggia venti anni per tornare all'inizio, tutta la storia è tesa verso il ritorno. Si parte per riconquistare le proprie sponde. Il viaggio costituisce il senso che alla fine svelerà a Ulisse il vero senso della sua vita, cioè, come sostiene Pietro M. Toesca, meglio la pace che la vita in guerra. Per l'Ulisse di Joyce le 800 pagine, invece, sono il racconto di una giornata qualunque. Sensibile che implica qualcosa di non sensibile, visibile che implica l'invisibile, udibile che implica l'inudibile. Nietzsche inaugura questo pensiero che fonda la modernità. Nella concezione precedente il sensibile è meno importante dell'intellegibile. Sarà Nietzsche a rovesciare questa concezione. Joyce dice, chiudi gli occhi e vedrai. Non fidarti della visione retinica, non è sufficiente, questa dà solo il visibile ma esso non è tutto, per cogliere ciò che stupisce del visibile dobbiamo andare oltre. A chi dicono le linee e le parole delle opere il loro contenuto? Non solo agli occhi ma a una doppia vista, quella che vede ma è anche vista, cioè l'altro della cosa, così lo chiama Wittgenstein. Vediamo delle righe poi improvvisamente compare un mondo che i nostri compagni non vedono, come facciamo a farglielo vedere se per loro continuano a essere linee? D'un colpo appare l'altro, ed è imprevedibile quando e se compare. L'altro del visibile, non dal visibile, cioè l'invisibile. Cioè l'altro non è l'invisibile ma è dentro al visibile. Invisibile nel visibile che non è del tutto visibile. Il silenzio dell'arte non è il silenzio quando non ci sono parole ma è il silenzio che cogliamo nelle parole. E non c'è arte se non c'è silenzio. Ridurre la poesia al sensibile vuol dire togliere la sua dimensione che è invisibile. Per questo non si può mai comprendere in modo definitivo, c'è sempre una comprensione parziale dell'opera. Il voyeur, il guardone, vede l'oggetto il voyant, il veggente, vede l'altro, l'invisibile nel visibile. Vede cioè qualcosa che non si lascia ridurre a oggetto. Vede ciò che mentre guardiamo ci guarda. Per questo non si può ritrarre mai definitivamente una persona.


Seconda lettura
(Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli)


Se insisto su questo, è per evitare il sorgere del malinteso per cui l'opera d'arte sarebbe mera forma. Ma ancor di più devo insistere su questo: che la conoscenza scientifica della natura, di piante e animali, della terra e della sua storia, delle stelle, a nulla ci serve, se non siamo provveduti di tutto l'armamentario per la loro rappresentazione; che la più ingegnosa interpretazione dei loro rapporti nell'universo a nulla serve, quando ancora una volta non si sia provvisti di forme; che la mente più profonda, lo spirito più sottile a nulla serve, quando non s'abbiano a portata di mano
le forme convenienti...


Ma c'è un fenomeno che sta al di sopra di tutte le cose colorate, l'astrazione d'ogni applicazione, elaborazione e combinazione di colori, la pura astrazione cromatica: questo fenomeno è l'arcobaleno. È significativo che questo caso singolare d'una scala di puri colori non appartenga del tutto all'al di qua, ma al regno intermedio terrestre-cosmico dell'atmosfera; di conseguenza esso possiede un certo grado di perfezione, ma non il massimo, giacché appartiene all'aldilà solo a mezzo. Anche qui però la nostra capacità creativa ci soccorre a superare la manchevolezza del fenomeno permettendoci perlomeno una sintesi della perfezione propria dell'aldilà. Noi supponiamo che quanto ci si manifesta solo in parte e come apparenza imperfetta sia, in qualche luogo, senza imperfezioni; il nostro istinto artistico deve quindi aiutarci a trovare la forma di quell'essere perfetto...


Possiamo dire in sintesi: è stato reso visibile qualcosa che, senza lo sforzo di renderlo visibile, non si sarebbe potuto conoscere. Senza quello sforzo si possono si vedere delle cose, ma non conoscerne con precisione l'essenza. Nell'ambito dell'arte bisogna ben distinguere lo scopo del rendere visibile: se si tratta cioè di notar cose viste per ricordarsele, o di manifestare cose invisibili. Se avvertiremo questa differenza e la terremo ben ferma, allora potremo dire d'essere arrivati al punto principale della
figurazione artistica...


L'espressione è allora ciò che conta. Per mostrare l'espressione si deve essere un grande artista, per disegnare un naso no. Provate a esprimere allegria. Se siamo in grado di farlo percepiamo qualcosa che va al di là dell'oggetto. L'invisibile è la forza, la vis, la vita del visibile. Holderlin dice il resto lo fondano i poeti, il resto è ciò che è libero dalla forma comunicativa. Le parole poetiche non comunicano qualcosa, fanno sentire il silenzio che le anima. Adorno sostiene che prima c'è il brutto poi c'è il bello. Dunque la bellezza non è eterna. Nel Novecento gli artisti per amore della bellezza vi hanno rinunciato. La bellezza e la creazione sono violenti, sono sofferenza e dolore. Questo dice Nietzsche. Costituiscono il passaggio dall'uno al due. Prima il brutto poi il bello. Prima l'uno poi il due. Prima l'unità poi la molteplicità. Lo strappo di Cronos da Urano. La nascita delle cose, lo sperma che diviene oceano, Venere che nasce dal mare. Insomma la vita è crudele, basta dire che alla fine si muore. Per renderla sopportabile i Greci inventano la bellezza. La bellezza è costruita per vivere in modo accettabile. La bellezza ha a che fare con la verità, espressione di questa rivelazione è l'arte Greca. Le sculture nel 4° secolo A.C. rappresentano un singolare, la statua, che diviene universale, assoluto. Equilibrio perfetto tra singolare e universale. Questa è la bellezza. Nel cristianesimo invece ci sarà una eccedenza. Dio si fa uomo in Cristo, che è allo stesso tempo uomo e anche Dio, eccedendo la sua natura umana. Il romanticismo aspira a questa eccedenza, a questo assoluto. Ma questo assoluto copre la vita. Dioniso vi è velato ancora di più. Apollo così viene strappato da Dioniso, logos e pathos si dividono. Senso e vita vanno in direzioni opposte. Chi conta di più? Conta di più pathos, l'esistenza, la vita. Ma Dioniso si sottrae al senso. Per quante maschere Apollo inventi, Dioniso vi sfugge. Però, possiamo dire Dioniso solo perché Apollo lo nomina, cioè, ciò che viene dopo è prima, ciò che è prima, lo è perché viene nominato da chi viene dopo. Stefan George dice: non c'è cosa senza parola. Cosa vuol dire? Che noi vediamo le cose solo perché le nominiamo. Se non abbiamo parole per nominarle non le vediamo. Derrida scrive che tutto è linguaggio. Tuttavia l'invisibile non si lascia ridurre alla visibilità. La vera grande arte per Nietzsche è la tragedia, più dell'epica omerica o delle statue di Prassitele. Lo è perché il rapporto tra Dioniso e Apollo è più equilibrato. L'arte è il velo che copre la vita rendendola accettabile. L'arte classica, con la bellezza, ha trovato il modo per coprire Dioniso, cioè per liberarci dal pathos e dalla sofferenza. Al contrario la tragedia avvicina a Dioniso, è il perfetto equilibrio tra Dioniso e Apollo. La tragedia svela il dionisiaco sotto immagini apollinee. Fine dell'assoluto, inizio della molteplicità. Frammenti, non sistemi, aforismi e eliminare tutto ciò che pretende di redimere l'infinito, cioè l'irriducibile, all'unità e alla totalità. Il tempo lineare è sostituito da quello circolare. Tra visibile e invisibile sta l'enigma dell'arte, non nella bellezza. Qui, tra visibile e invisibile, il logos è impotente. Lessing dice che è più importante la ricerca che la verità. Nel cerchio ogni dato ha senso, non bisogna aspettare la fine. Zarathustra sale alla vetta con il nano sulle spalle, il nano è la gravità, è il peso che ti spinge a tornare sui tuoi passi, ma di fronte alla porta carraia Zarathustra fa scendere il nano, allora parlano. La porta carraia ha due strade una verso il futuro e una verso il passato, entrambe infinite. Ma se l'una e l'altra sono infinite allora tutto ciò che è nel passato è anche ciò che sarà nel futuro sono uguali. Tutto è già accaduto. Ma questa è una semplificazione che dà il nano, cioè il logos. Più avanti Zarathustra incontra il pastore con ha una serpe in bocca che lo soffoca, Zarathustra tira e cerca di farla uscire, ma poi dice al pastore mordila. Lui lo fa e le stacca la testa, a questo punto il pastore danza e balla. Cioè, tutto è già lì, nel senso che le cose hanno subito, nell'attimo, già tutte le chance, esse sono piene di tutte le possibilità. Non è più necessario aspettare la fine per dare senso, perché esso è già lì. Visibile e invisibile insieme. Nello stesso istante, allo stesso tempo. Pensate al linguaggio. Stiamo per parlare ma ancora non abbiamo detto nulla, tutte le parole sono lì, disponibili, finché non parliamo, allora quelle espresse diventano udibili, prendono senso, ma solo perché tutte le altre, inudibili, ne costituiscono lo sfondo. Da quell'invisibile compare la frase, prima di agire la parola avevamo tutte le chance. Anche quella di esprimere un opera d'arte. Insomma, non c'è paradiso o assoluto, il dato è l'unità del senso. Sia di ciò che si è dato, sia di ciò che non si è dato, non si deve più attendere perché abbia senso, il dato con la parola è già carico di tutte le possibilità. Il passaggio dal teoretico al pratico, l'invito a mordere la testa del serpente, cioè, a decidere, è la questione etica, dunque politica.


Terza lettura
Giuseppe Di Giacomo, Icona e arte astratta


Così Wittgenstein scrive nelle Ricerche filosofiche: «E chi dipinge non deve dipingere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta?» Tuttavia Wittgenstein porta il problema alle estreme conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con un’immagine, dobbiamo tener conto se la paragoniamo con un ritratto (un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i paragoni hanno senso. Se guardo un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se io non credo (mi figuro) neppure per un momento che gli uomini che vedo rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne e ossa si siano davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Allora, che cosa mi dice?» La risposta di Wittgenstein suona: «‘L’immagine mi dice se stessa’ vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua propria struttura, nelle sue forme e colori» Ponendo la questione in tali termini tuttavia Wittgenstein non intende affatto contrapporre un’immagine intesa come ‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare l’attenzione dell’osservatore esclusivamente su ciò che essa rappresenta, e un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il cui fine sarebbe quello di presentare la «sua propria struttura» e le «sue forme e colori». Del resto, continua Wittgenstein nello stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il dire: ‘Il tema musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein queste due modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e immagine intesa come fine, sono tra loro connesse, tanto da formare un unico concetto di ‘immagine’. Che il problema vada inteso e approfondito in questi termini, lo chiarisce lo stesso Wittgenstein, affrontando in alcuni paragrafi successivi la questione relativa al «comprendere una proposizione»: «Noi parliamo del comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere sostituita da nessun’altra. (Non più di quanto un tema musicale possa venir sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della proposizione è qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qualcosa che soltanto queste parole, in queste posizioni, possono esprimere. (Comprendere una poesia)» E subito dopo aggiunge: «Dunque qui ‘comprendere’ ha due significati differenti? – Preferisco dire che questi modi d’uso di ‘comprendere’ formano il suo significato, il mio concetto del comprendere» Wittgenstein sottolinea in questo modo che i due tipi di comprensione – quella che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il pensiero espresso dalla proposizione può essere riformulato in modi diversi, rimanendo lo stesso, e quella che potremmo definire ‘estetica’, caratterizzata invece dal fatto che il suo ‘tema’ non può essere riformulato in altro modo, come esemplifica il caso del ‘tema musicale’ o della ‘poesia’ – sono imprescindibilmente connessi tra loro in un concetto unitario. È la stessa interconnessione che Wittgenstein aveva rilevato in relazione all’immagine. Il fatto è che quel particolare tipo di immagine che l’opera d’arte costituisce può rimandare all’altro da sé, soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se stessa, ‘dice se stessa’; può essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in quanto è ‘presentazione’ di se stessa. Di conseguenza, ciò che nell’opera viene rappresentato riceve la sua ‘unicità’, la sua ‘specificità’, è insomma proprio ‘questo’, grazie al fatto che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’, secondo le sue ‘linee e colori’. Così questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi deve essere visto come qualcosa che, seppure da sempre presente sotto i nostri occhi, appare come se lo vedessimo per la prima volta e, proprio per questo, non può che procurarci stupore e meraviglia. Scrive a questo proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procurano piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori dell’ordinario. (‘Non pensare che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire: Meravigliatene, come fai per le altre cose che ti procurano turbamento [...])»


Heidegger ritiene che nell'ultimo Nietzsche due sono gli argomenti principali, il primo è la volontà di potenza, che è poi la vita stessa, il secondo è l'eterno ritorno. Sull'eterno ritorno di solito si istituisce un rapporto con Eraclito privilegiando il divenire della temporalità. Secondo Heidegger non accetta fino in fondo Nietzsche l'affermazione eraclitea per cui tutto diviene. Ora, è vero che tutto diviene, ma anche la sua affermazione deve divenire, dunque la tesi è auto-contraddittoria, non può incontrare l'essere. Per questo Nietzsche non la porta alle estreme conseguenze, cioè non la assolutizza, perché essa eliminerebbe qualsiasi verità, nulla ci sarebbe più di fermo. Invece Nietzsche vuole coniugare il rapporto tra essere e divenire. Nietzsche assume questa posizione rispetto all'ente nel suo insieme, per cui anche il soggetto in quanto ente vi rientra, dunque il soggetto vi è implicato. Tra il nano e Zarathustra si gioca la partita del soggetto interno ed esterno, cioè implicato o meno. Eterno ritorno che non esclude l'essere, essere che non esclude il divenire. Insomma, cerca Nietzsche la formula di un divenire che non escluda l'essere. Per il nano soggetto e oggetto sono divisi, il soggetto è fuori dall'ente e ne vede scorrere le acque, che poi tornano di nuovo daccapo. Invece per Zarathustra l'ente è dentro le acque e scorre con loro, esse non tornano sempre uguali, altrimenti che nell'attimo, lì sono presenti tutte le possibilità, ma queste vengono spezzate dal morso, cioè dalla decisione, poi, dopo non torneranno più uguali, il cerchio allora è aperto, diviene una spirale. Per risolvere questa contraddizione Nietzsche deve usare un linguaggio che non poteva essere logico metafisico, infatti si rivolge alla poesia. Nella dottrina dell'eterno ritorno la questione da universale diviene singolare, l'eraclitismo diviene particolare, così il divenire implica la coesistenza con l'essere. “Io vi insegno la redenzione dal flusso perenne” dirà Nietzsche. Nel flusso eracliteo le acque tornano sempre uguali, questo è il punto, l'uguale è più forte del divenire. No, pensa Nietzsche, non è più forte, ma è il loro equilibrio. Noi non possiamo scendere nello stesso fiume e bagnarci nelle stesse acque dice Eraclito, invece per Nietzsche questo flusso è redento, cioè il flusso viene conseguito liberando l'essere senza fine, in uno stesso movimento, cioè non assolutizzando né l'essere né il divenire, ma implicandoli. Trova così stabilità nel divenire l'essere, pensando l'ente nel suo insieme, il cosmo e l'ente che non è esterno, cioè soggetto e oggetto collimano. In questo modo passa Nietzsche da un punto di vista scientifico a uno etico, cioè pratico. Nel divenire eracliteo tutto cambia continuamente e ritorna ma allora non vale la pena di impegnarsi in niente. Questo pensiero colpisce Nietzsche, cioè che le nature migliori, il superuomo, potranno anche essere in arrivo, ma se poi tutto ritorna si ripresenterà anche il piccolo uomo. Allora non c'è niente da fare? Non c'è più spazio per la decisione, per lottare per qualcosa? La visione che crede tutto ritornare ancora, allo stesso modo, pensa ad un cerchio che si chiude. Zarathustra non lo chiude. È l'attimo il punto in cui si verificano tutte le possibilità. Se mordo, il cerchio si apre. È vero che Nietzsche dopo lo Zarathustra si dedica a una opera capitale, la volontà di potenza, ma essa è sempre l'eterno ritorno. Quale rapporto esiste tra eterno ritorno e volontà di potenza? Per Heidegger la volontà di potenza costituisce il fondamento dell'eterno ritorno. Sono coappartenenti. Tre sono i poli del pensiero di Nietzsche. A questi primi due va aggiunta la tra-svalutazione di tutti i valori, che è poi il sottotitolo di questa ultima opera incompiuta. Tutti e tre costituiscono l'insieme o la forma di questa filosofia che si coglie solo attraverso questi tre i punti. Il pensiero di Nietzsche vuole rovesciare l'insieme della filosofia occidentale, che lui interpreta come platonismo. Il fatto cioè che l'ideale è il reale e il reale è l'aldilà. La Bellezza, sempre con la B maiuscola, è nell'iperuranio, nell'aldilà. Non è che secondo Nietzsche l'aldiquà diviene reale e l'aldilà non esiste. Non è questo il rovesciamento, il fatto è che lo spirito si trova solo attraverso il corpo. Dunque, l'ideale si può dare solo attraverso il reale e siccome il reale è contingente allora l'ideale non può più essere assoluto. La bellezza perde la sua prerogativa eterna, ora la scriviamo con la b minuscola. Questo aspetto coinvolge anche la verità che si attua nel reale, e dunque non può essere assoluta neanche quella. Così pensa Nietzsche. Se alla base della vita ci sono i valori e quelli superiori sono determinanti per la filosofia occidentale, allora i valori supremi della filosofia vanno rovesciati, il contro movimento di Nietzsche è la tra-svalutazione di tutti i valori. Il problema è allora cosa vuol dire che non esistono valori assoluti, perché questo è proprio il nichilismo. Quell'evento, Dio è morto, è la tra-svalutazione di tutti i valori, che è poi la causa che determina il nichilismo. Il pensiero dell'eterno ritorno si può conoscere solo attraverso il nichilismo, solo così potremo capire il significato dell'eterno ritorno. Dostoevskji nei fratelli Karamazov o nei Demoni dice che dobbiamo passare attraverso l'ateismo per giungere alla fede. Altrimenti è una fede sbiadita. Anche Lukacs lo dice. Dunque ateismo e nichilismo sono pari. Nell'Apocalisse Dio dice io ti vomito dalla mia bocca. Cioè, si deve lottare e passare dalla cruna dell'ago. Il nichilismo nega i valori supremi e da lì si deve passare per capire l'eterno ritorno. Una dottrina che si occupa del niente, cioè si occupa dell'evento, cioè di ciò che si dà a un tratto, cioè che fino a quel momento non c'era. La morte di Dio è la morte dell'assoluto, prima Dio c'era, ma poi accade che non c'è più. L'eterno ritorno si può dare solo dopo una decisione, dunque è un evento, appare improvvisamente. Il niente, che è negazione di qualcosa, dunque di ogni qualcosa, nega l'essere in generale, cioè l'ente in generale, tutti i qualcosa che lo costituiscono. L'ente nel suo insieme è niente per il nichilismo. Il pensiero dell'eterno ritorno ha un carattere nichilistico perché rifiuta la temporalità lineare, cioè il tempo in cui alla fine compare il senso, dunque nega il senso finale, ma dice che il senso si dà solo nell'attimo, quando siamo felici, allora tutto prende senso, tutto diviene buono. L'attimo può essere soltanto partecipato, non può essere visto dall'esterno. Siamo dentro il fiume, implicati. Allora non c'è più fine ultimo, telos, il senso non si dà alla fine, ma ora qui, implicando una decisione, il senso, allora, il fiume, in questa nuova configurazione, in sui soggetto e oggetto non sono esterni ma implicati, si dà senza fine, liberando continuamente l'essere. Il senso è interno a noi che siamo intrecciati all'acqua del fiume. Attimo e eterno ritorno, cosa è l'attimo? La linearità è una menzogna, la menzogna del platonismo, ogni verità è ricurva, ogni verità è un circolo, ma Zarathustra dice di non parlare alla leggera, perché il cerchio non è chiuso, perché dice al nano guarda questo attimo, la porta carraia, ognuna delle due vie è una eternità, e poi domanda: la porta carraia ci sarà già stata? E ancora: e tutte le cose annodate tra loro in ogni attimo si attraggono e anche se stessa? Il nano non risponde alla seconda domanda, perché è un nano. Finché Nietzsche è preso dal senso della pietas, quella di Schopenauer e Wagner, dice Heidegger, non è pronto all'eterno ritorno, perché quella pietas insegna il pessimismo e il nulla, essi parlano di risveglio, forse domani, intanto continuando a dormire. Il serpente nero, che è il nichilismo stesso, rimane nelle fauci del pastore. Dunque, la negazione del valore e del senso diventano loro gli assoluti. Ora l'alternativa tra il senso finale o nessun senso è il senso qui e ora. Il nichilismo arriva nel sonno, nel sonno della ragione, e l'insensatezza è il mostro, il nichilismo è questa insensatezza. Il pastore non era all'erta, dormiva, allora Zarathustra cerca di strappare il serpente, ma il nichilismo non può essere superato dall'esterno, va vissuto, si deve passare attraverso la cruna dell'ago. Non si possono prendere i valori sostitutivi dall'esterno, da fuori, si può solo dall'interno, afferrare un mondo senza valori per farli uscire fuori avviene senza appigli esterni, perché il serpente se lo tiri si attacca sempre più forte, allora Zarathustra dice mordi, mordi. Il serpente nero minaccia di incorporarsi e deve essere strappato da dentro, non da fuori, solo il pastore può e deve stringere i denti. Attendere senza affidarsi a chi arriva, anzi, sapendo che nessuno arriva, solo noi possiamo attraversare il nichilismo ma senza un senso finale, dando senso di volta in volta. Allora il senso diviene contenuto e questo è sedimentato. Per questo parleremo sempre delle stesse cose in modo diverso, perché scorriamo insieme alle acque. Il riso del pastore è quello della gaia scienza, cioè, di un mondo pieno di nuovi sensi e di ricchezze che giungono attraverso il morso. Dunque, non è possibile raggiungere il senso per via logica, ma per via etica, cioè praticamente, decidendo poeticamente, dalla parola greca poiesis, che vuol dire fare. Solo dopo il periodo della porta, il periodo del cane che ulula e che lo commuove, solo dopo aver superato il nero serpente, allora aquila e serpente insieme lo festeggeranno. Allora dopo la malattia viene la convalescenza e Zarathustra va verso la guarigione.


Quarta lettura
Giuseppe Di Giacomo, Icona e arte astratta


Klee ha voluto che sulla sua tomba fosse scritto: «Nell’al di qua non mi si può afferrare. Ho la mia dimora tanto tra i morti quanto tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione, ma ancora non abbastanza vicino» Il luogo proprio dell’arte di Klee è il limite tra il visibile e l’invisibile, tra la forma compiuta e il processo di formazione sempre da compiersi: se il primo termine ci dà oggetti che nascondono il loro senso, il secondo termine ci dà proprio quel senso, non però come qualcosa di raggiunto una volta per tutte, bensì come qualcosa su cui dobbiamo sempre e di nuovo tornare a interrogarci. La pittura di Klee è questa interrogazione...


Franco Insalaco



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