Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


lunedì 7 maggio 2012

06/05/12. XXXIII incontro. Il pensiero femminile. Il sonno della ragione genera mostri. (A completamento del testo precedente).


Il sonno della ragione genera mostri, Goya
Aristotele dice che solo il particolare è sostanziale rispetto all'universale, che solo il singolo fenomeno concreto che appare è reale. Rendiamo la parola sostanza con οὐσία proveniente da εἰμὶ, cioè, essere, ma anche creatura. Da cui πρῶτος οὐσία, il primo essere, è il tema che si pone Aristotele.  Solo il particolare deve essere tale οὐσία, esso solo deve realmente essere. Ma c'è una seconda tesi fondamentale nella metafisica di Aristotele relativamente al rapporto particolare universale, ed è che l'essenza, l'idea, non è al di fuori delle cose delle quali è l'essenza, ma è nella misura in cui essa stessa è nelle cose.  La difficoltà che Aristotele pone in evidenza della filosofia platonica è come mai se le idee e le cose sono separate, le idee siano infine causa e origine delle cose stesse. Così si avrebbero due mondi, uno fittizio delle cose e uno vero delle idee, questo con tutte le contraddizioni che comporta. 

Dunque, se per semplicità separiamo l'ontologico, il mondo delle idee, dall'ontico, quello degli enti, è inspiegabile come uno agisca sull'altro, questo per Aristotele il limite del platonismo. Come faccia l'idea pura a diventare forza attiva che si estende ai fenomeni è una delle questioni che partono da Aristotele e continuano in tutta la storia della filosofia. Ma sostanziale può essere solo ciò che non ha bisogno di altro per essere. Carattere che per Aristotele appartiene solo al particolare. Questo concetto è fondamentale per la metafisica, sarà tramandato dalla filosofia di Cartesio che in questo senso non è poi così distante dalla scolastica da cui pure si distingue. Tale definizione, che la sostanza è solo ciò che non ha bisogno di altro per essere, è presente anche nell'Etica di Spinoza e anche nella fenomenologia di Husserl. Esiste in questa formulazione un concetto che sussiste nella nostra lingua e che diamo per scontato, il fatto che è sostanziale ciò che non ha bisogno di altro per esistere, non necessita di un mezzo per cui è o lo possiamo conoscere. In altre parole, sostanziale è l'immediato. All'inizio della metafisica il principio di ciò che fonda il tutto, a cui si deve orientare la conoscenza, è appunto l'immediato nella forma del particolare a cui Aristotele accredita di essere il reale e vero ente. Questo immediato in Aristotele non è però pensato nella sua forma sensibile, riferito alla nostra facoltà conoscitiva. Probabilmente Aristotele, discepolo di Platone, conosceva le argomentazioni del Teeteto contro l'immediato e le ha fatte sue. Platone nel Teeteto attacca l'affermazione di Protagora secondo cui l'uomo è misura di tutte le cose. Per Platone la conoscenza non deve trattare dell'immediatezza della coscienza ma dell'immediatezza in sé. Ma come si può parlare di immediatezza in sé, poiché ognuno che predica di tale immediatezza non può che farlo a partire dalla propria coscienza, cioè, ognuno fa esperienza della immediatezza per sé? Ora Hegel ha insegnato che non c'è immediato che non sia anche mediato. Si fa dunque molta fatica oggi a capire che cosa sia una immediatezza che non comporti di conseguenza anche una mediatezza. Cioè, nella filosofia Greca fino alla scolastica, un poco ingenuamente, si pensa che ci sia un rapporto diretto agli oggetti quando se ne parla. Non c'è mediazione, non c'è dialettica. Per Platone e Aristotele nella conoscenza ha rilievo solo l'intentione recta. Troviamo così questo incrocio del particolare, unico e reale, abbinato a un realismo rivolto ingenuamente all'esterno senza riguardo alla mediazione della coscienza, essa conosce direttamente l'oggetto, per così dire, immediatamente. Nonostante questo elemento diretto al riconosci mento del particolare come reale e veritiero, Aristotele è tuttavia anche un maestro della mediazione, nel senso che introduce le sostanze seconde come elemento astratto, cioè simile alle idee platoniche, ma senza ipostatizzarle, cioè, non le pone sopra, nell'iperuranio, ma come immanenti alle cose stesse, contenute quindi nel particolare. Entelechia nomina Aristotele il carattere per cui la realtà ha inscritta in sé la sua meta finale. En telos, ἐν τέλος, dentro e fine, significa che ogni cosa ha dentro il suo scopo. Dunque la tesi Aristotelica è che ci sono concetti sostanziali, ma non sono separati, non sono al di là del singolo ente, sono immanenti ad esso, questo è ciò che distingue la metafisica di Aristotele dalla dottrina platonica. Aristotele è più realista, più razionale e meno divino. Il passaggio dal religioso al filosofico in Aristotele è più deciso. Così, se queste essenze seconde operano nel particolare senza essergli poste di fronte allora non c'è più alcun problema, non è più assurdo o irragionevole che queste entità agiscano sulle cose particolari, che esista per loro mezzo una mediazione tra le idee e l'ente sparso. Quindi, le essenze seconde o alla seconda potenza non si possono porre all'esterno delle sostanze, delle cose che sono essenze prime, non possono essere ipostatizzate, sono immanenti alle sostanze, non sono trascendenti come le idee platoniche. Questo è il ribaltamento del platonismo e insieme la sua salvezza, un poco come farà Marx con Hegel. Le idee non devono più essere separate dal sensibile, dai dati di fatto, dalla materia della conoscenza, ma sono solo in quanto si realizzano in questo ente stesso. Allora il problema della prima causa si risolve poiché il mondo reale, l'apparenza, è teleologicamente, da Telos e Logos, cioè fine e ragione, ordinato dalle idee o pure possibilità che devono essere contenute in esso. Dunque, per Aristotele le idee pongono un rapporto tra cose e possibilità, inoltre sono l'uno nei molti, riuniscono il separato, unificano il diviso, riunificano la molteplicità, sono, insomma, poste in relazioni concettuali. Tale unità della molteplicità è il rapporto tra l'idea e gli enti particolari contenuto dalla concezione aristotelica, cioè, il rapporto tra forma e materia. Questa idea appare, sorprendentemente, anche nel Parmenide del tardo Platone. Qual è in particolare questa idea? La reciprocità tra universale e particolare. Non c'è uno se non attraverso i molti, non ci sono molti se non attraverso la loro unificazione. Non c'è unità indipendentemente dai molti, ma i molti si costituiscono solo in virtù dell'uno. Questa idea della unità nella molteplicità, che nella modernità poi si trasferisce nel soggetto che produce l'unità ordinandola, dapprima era ontologica, esprimeva cioè il fatto che l'unità è nell'essere stesso e preordinata a ogni singolo che lo costituisce, insomma, in fondo è il segreto dell'essere ben rotondo di Parmenide. Per Aristotele, quindi, alla fine l'universale e la forma, come poi nel suo maestro, costituiscono la realtà più elevata. Ciò comporta un riavvicinamento di Aristotele a Platone, per cui il τοδε τι, cioè questo qui, è solo l'esistente e l'universale; la forma, l'idea ne è la realtà superiore. Nel τοδε τι abbiamo un altro concetto fondamentale della cultura occidentale, il fatto che 'questo' non è un concetto ma un gesto, ecco, questo qui, e lo indico. Aristotele era dunque consapevole che questa realtà per sua propria natura aconcettuale non poteva essere espressa che con un gesto, che sarà poi l'hecceitas della scolastica. Dunque, ora improvvisamente chiamiamo forma ciò che in Platone si dice idea. Così il contrasto tra idea e realtà viene superato e il nuovo modo di concepire mostra una nuova differenza tra forma e materia. La nuova parola è μορφή, cioè forma, la parola cui si riferisce è ὕλη, cioè materia. Ora, il concetto di forma non è mai autonomo ma è sempre legato a qualcosa nella realtà di cui è appunto forma. Altrettanto accade al concetto di sostanza. Per Aristotele il concetto di μορφή ha ancora relazione con l'εἶδος platonica, che significa sia forma che idea. Mentre la ὕλη, hyle, è la quintessenza di tutto ciò che è, che è qui, che è, appunto, materia. Questi concetti riferiti l'uno all'altro reciprocamente sono il cuore della metafisica, intorno a queste due categorie, forma e materia, ruota la metafisica di Aristotele. Reciprocità doppia tra universale e particolare, tra forma e contenuto, tra forma e materia, la loro unione la chiamerà sìnolo. Per questo la metafisica aristotelica può essere considerata una teoria della mediazione, anche se non ancora dialettica. Non è dialettica perché non è mediata. Questo concetto della forma è il centro energetico che muove la materia e sta a indicare la forza, ἐνέργεια, l'energia. Al contrario, prima della materia come forma formata sta la δυναμυς cioè la pura possibilità, il non ancora formato, o ciò che può essere solo formato, cioè la materia grezza. Pertanto secondo Aristotele la materia che ospita le sostanze seconde ha una realtà superiore, più sostanziale, mentre la materia grezza è ridotta a sola possibilità. Dunque, ritorna alla fine il motivo platonico per cui solo le idee sono l'unica realtà, ma anziché lasciare le due sfere in opposizione, le apparenze come risultato del rapporto tra le idee in cielo e gli enti in terra, Aristotele le fa incontrare. Le fa incontrare, ma lasciando all'ἐνέργεια, energia, una realtà superiore confronto alla δυναμυς, cioè al potenziale della materia che è appunto solo possibilità. Quindi è realista in senso medioevale, insegna cioè la priorità degli universali sulle cose particolari. Eppure, da lui per due volte si è diramato il nominalismo. Le difficoltà e le contraddizioni in cui cade Aristotele anticipano quelle di tutta l'ontologia occidentale di fronte al rapporto tra nominalismo e realismo, di fronte all'universale e al particolare e infine alle possibilità e alla realtà. Per Aristotele il rapporto tra universale e particolare è equiparato a quello tra possibilità e realtà, nel senso che l'essenza incarnata è superiore alla materia, che è semplice possibilità ancora senza la sua forma. Ora, ciò che possiamo chiederci è come mai per Aristotele ciò che ha maggior rilievo è l'uno? L'unica realtà, il τοδε τι, questo qui, l'immediato, è reale, ma poi concepisce come superiore il mediato, il concetto realizzato, che si è attuato come materia, cioè, che l'ha formata. Ciò porta alla distinzione, che rimarrà presente in tutta la metafisica, tra genesi e validità. La materia viene prima ma ciò che conta è la sua forma, che è anche il suo valore. Per Aristotele le cose stanno così: per noi deve prevalere il dato primario, assolutamente sicuro, questo qui; ma in sé la realtà superiore, il valore, è la forma, l'idea, lo spirito. Il motore immobile è il modo in cui si presenta questa forma che ha valore ed è quasi divina. Il dualismo con cui pensiamo la realtà inizia da questa concezione aristotelica orientata in senso teologico. Questa forma pura, il motore immobile, che è in sé e per sé cosa fa? Attira magneticamente in alto, eleva a sé, con la sua energia pura, tutto ciò che è semplicemente potenziale e che in questo senso si raddrizza e realizza attuando l'idea, la forma, in misura sempre crescente. Ciò che non ha questo movimento è il non divenuto. Così Aristotele formula due concetti fondamentali per il pensiero dell'occidente e per il dualismo che lo contrassegna. Il concetto di sostanza e di accidente. Il sostrato, l'accidente, è ciò che ancora non è divenuto. Cosa è questo sostrato? E' la materia. La materia non è essere. L'essere è ciò che ha forma. La materia grezza non è sostanza, la sostanza è materia formata che trova attuazione proprio nella forma. La forma di Aristotele è sostanziale come le idee di Platone, così per entrambi tutto lo strato iletico, materiale, è non ente. Così avviene di nuovo il rovesciamento per cui ciò che pare nella coscienza popolare, nella comune visione, essere meno sostanziale, più effimero, irreale, semplice ideale, sbiadito rispetto al reale, la forma, l'idea, infine prevale su ciò che appare più tangibile, evidente, reale, cioè la materia. La materia è così degradata a semplice potenzialità. In fondo già qui possiamo cogliere l'inizio dell'idealismo. Dove l'ideale appare come il più reale mentre ciò che è sensibile, l'esperienza, è svalutata come meno reale. Alle forme si attribuisce una realtà superiore che al loro contenuto. Per cui la filosofia aristotelica si pone la questione di come le forme si realizzino nel contenuto. Cioè dentro la materia. Dunque il fine, il telos, della materia è che essa prenda la sua forma. La causa sarà la forma delle forme che come motore immobile attrae a sé la materia. Il fine è la forma che attuandosi causa nella materia la sua trasformazione. Insomma, la forma è causa e fine. La forma è l'energia, la materia è la sola possibilità. C'è anche del buono in quanto dice Aristotele nel senso che la forma diviene elemento sintetico su cui il giudizio deve basarsi cercandone la corrispondenza solo nel mondo reale, si può dire che sia l'inizio del pensiero scientifico. Tuttavia, la metafisica di Aristotele si trasforma anche in senso teologico con quel motore immobile da cui ha origine la realtà. Un immobile che si media con il resto, la materia, attirandola e mettendola in movimento e perfezionandone le potenzialità partecipandola a sé progressivamente. Il motore, uno e immobile, si erge al centro e tutto attrae facendolo ruotare intorno a sé. Partecipa tutto di sé in modo più o meno perfetto, tanto più vicino, tanto più perfetto. Esiste quindi nell'universo razionalità e armonia, essendo tutto partecipe della perfezione del motore immobile. Essendo l'uomo attivo e in movimento, come il seme, e la donna passiva e immobile, come l'ovulo, è chiaro che il primo, essendo attivo, entra nel secondo che è immobile, e attivandolo catalizza e dà forma. Per questo l'elemento maschile è maggiormente partecipe alla perfezione del motore immobile. Invece, la donna, ospita solo il principio attivo e lo porta a effetto con il concepimento, è per questo più prossima alla materia. Se pensiamo ai luoghi comuni secondo cui il maschio è caldo e la donna fredda, l'uomo attivo e la donna passiva, l'uomo astratto e la donna concreta, l'uomo razionale la donna emotiva, vediamo il parallelismo con i principi aristotelici e la sua metafisica. Non dimentichiamo che la scolastica è aristotelica e noi siamo cattolici. Dunque, questa è la ragione per cui la donna è una rappresentazione dell'uomo. La sua rappresentazione pone la donna come se fosse meno prossima al motore immobile, cioè alla perfezione. La dicotomia innescata tra valore e origine porta così a dare meno valore all'origine materiale, cioè alla madre, perché è immanente, passiva e materica, più valore al padre che è trascendente, attivo e spirituale. Tutto ciò a partire dalla metafisica aristotelica orienta da subito il pensiero in modo maschile fino a dichiarare per la donna l'impossibilità di vivere senza l'uomo. Così, la storia del femminile è sottoposta al suo destino di subordinata alla condizione di altro dall'uomo. L'uomo ha sempre necessità di altro. Perché è a partire da altro che si definisce. L'altro è l'oggetto confronto al soggetto, la materia confronto allo spirito, ma anche lo straniero confronto all'autoctono, la donna confronto all'uomo e così via, l'amico confronto al nemico. La dicotomia non funziona in termini assoluti. Non è che la donna è differente dall'uomo punto. No, è che invece il differire della donna dall'uomo corrisponde a una sua mancanza e a una sua inferiorità. L'Uomo è l'universale a cui si riferisce l'altro. E' quasi il motore immobile. L'altro è la donna che differisce da lui per le sue carenze. Così ne segue che naturalmente l'uomo è dotato di ragione e la donna ne è carente, l'uomo è atto a comandare e la donna a ubbidire, l'uomo è dotato per il sapere e la politica e la donna per la sfera domestica e i lavori di cura. E su tutta la questione, con buona pace di tutti, viene impresso il marchio di naturale. Che è poi il concetto di norma nascosto nel concetto di natura. Dunque è naturale che sia così. Ma questa formula non è altro che la normalizzazione impressa da chi decide le forme sociali, di solito gli uomini. Accade perché il maschile è al centro dell'ordine simbolico che definisce cosa sia normale e cosa devia dalla norma. Per quanto le norme cambino nei secoli continuano ad assegnare al femminile una parte subordinata e all'uomo la parte di motore immobile. Le donne non sono poste in modo univoco all'interno dell'ordine simbolico maschile, proprio per la complessità delle esigenze che l'uomo persegue. Sono madri e spose come cura familiare o/e prostitute e seduttrici come oggetto della trasgressione maschile. La varietà di questi posizionamenti è sempre funzionale alle esigenze maschili. Luce Irigaray in questa direzione pone in evidenza come questa struttura determini l'economia binaria fondata sulla logica del medesimo. Cioè, come in uno specchio, l'uomo si riflette nelle sue auto rappresentazioni catturando in esse anche la donna, funzionalizzandola ai suoi progetti, ai suoi bisogni. Il modello a economia binaria è oppositivo, duale e gerarchico. E' bipolare e sul polo positivo maschile, il soggetto, lo spirito, decide e pone la negatività di quello femminile, oggettivo, materico. Nel medioevo alto con la parola matrice si indicava l'organo riproduttivo femminile. Essendo primo il soggetto, il sé maschile, la seconda risulta l'altro. Altre dicotomie note sono: cultura/natura, ragione/passione, mente/corpo, pubblico/privato ecc. In questo complesso e articolato sistema si posizionano e normalizzano uomini e donne. Si dota il linguaggio di identità e stereotipi del maschile e femminile che costituiscono i modelli di riferimento. Questa struttura culturale è stata creata dalle donne in minima parte. Quindi, essendo prevalentemente maschile, il sistema è il luogo di rappresentazione del maschile e del femminile a sé funzionale. L'altra è non veramente altra ma lo è a partire dall'uomo e per l'uomo. L'economia binaria è una economia omosessuale, nel senso che il soggetto e il protagonista di questo discorso è di un un solo sesso. L'economia binaria è un modello così efficace che rischia di caderci ogni discorso, compreso quello femminista. Adriana Cavarero definisce questo dispositivo la gabbia del linguaggio, il rischio è che ogni pensiero, compreso quello della donna, è già dislocato all'interno delle sue categorie preesistenti. Ogni pensiero è quindi a rischio di essere espresso con tale orientamento. Evitare questa trappola è tutt'altro che facile. Per questo serve la decostruzione, perché aiuta a rompere il modello. Noi possiamo pensare uomini e donne opposti, complementari o uguali. Il pensiero femminista non persegue tutte e tre le strade. La terza rischia di essere solo un mascheramento che riconosce una uguaglianza teorica ma non pratica. Perché diventi pratica è necessario che l'uguaglianza delle differenze sia priva di gerarchie. Se diciamo: l'uomo e la donna sono differenti con uguali diritti l'uomo però è portato alla politica e la donna a casa, non facciamo un solo passo avanti confronto a prima, anzi andiamo pure peggio. Le gerarchie sono strutture che replicano l'economia binaria e ingabbiano il discorso nella logica delle medesime categorie. Ne segue una uguaglianza di tutti, uomini e donne, in cui le donne però vi rientrano come fossero uomini, perdendo così di valore. Ciò le lascia nella condizione schizofrenica per cui ambiscono a una parità dei diritti teorica, ma poi devono scegliere se fare le madri o diventare dirigenti d'azienda o, alla peggio, fare entrambe le cose. Questa falsa uguaglianza porta la donna a soddisfare doveri molto maggiori e più impegnativi di quelli maschili. Luce Irigaray, lo abbiamo visto con la Democrazia comincia a due, segue la differenza di identità tra i sessi e l'uguaglianza dei diritti, ma questo lo popone solo in seguito ad un rinnovamento giuridico, che non deve più essere fondato sul diritto di proprietà e sulle cose, ma sull'identità personale e di genere. La conquista di un diritto basato sulla differenza di genere è, ad esempio, la conquista che in Francia avviene in seguito alle lotte che hanno unito le donne per scegliere la gravidanza e per la legalizzazione dell'aborto dopo il '68. Il tentativo di proteggere il loro corpo da tutte le forme di violenza e dallo stupro, che è la peggiore, consentì però di legalizzare solo una libertà minima all'interno della legge orientata alla famiglia patriarcale. La donna poteva abortire ma non scegliere della sua gravidanza. Lo stupro veniva indicato come un crimine ma non citava il corpo femminile come tale, non preveniva il potenziale stupratore dal delitto che rappresenta il suo atto. Così, alcuni possono pensare che stuprare sia un atto criminale che non li riguarda, avendo semplicemente fatto l'amore con la compagna, seppure virilmente, oppure con una amica. Altri diritti sono negati alla cultura femminile con valori linguistici e religiosi propri. Diritti di rappresentanza politica e pubblica, diritti delle madri nella educazione e nella tutela dei bambini, in particolare nel caso di coppie interculturali e separate, infine diritti adeguati per il lavoro. Ma il linguaggio chiaro, semplice, coinvolgente del '68 si è poi impantanato nelle strategie politiche, istituzionali e culturali. Negli anni '80 la situazione è ancora peggiorata, l'uguaglianza ha preso il posto della differenza. Le richieste radicali nate nel '68 finiscono nel '78. Poi le cose sono sfumate e diventare donna era considerato vecchio e reazionario, un condizionamento sociale certo da analizzare e superare ma non il desiderio e la ricerca di identità della metà del genere umano. Il potere patriarcale sventolando l'uguaglianza propose altre rivoluzioni, ben più sanguinarie, che non quella del diritto alla differenza femminile. Le lotte delle donne sono così state riassorbite all'interno della lotta per l'uguaglianza con la rivendicazione ad avere gli stessi diritti degli uomini. Così le donne sono state di nuovo risucchiate nella identità storica maschile. Hanno, cioè, lo stesso diritto, come se le donne fossero uomini. Le lotte delle donne hanno così perso il loro carattere popolare e democratico, sono diventate opinioni che coloro che hanno potere e diritto di parola esprimono ma non più per strada, diviene parola all'interno delle università e dei cenacoli o dei partiti. Tale atteggiamento, condiviso anche dalle donne, dalle più giovani soprattutto, le porta a vivere liberamente le loro scelte sessuali o lavorative giudicando la liberazione una storia passata, ormai avvenuta. Queste donne sono però inevitabilmente riassorbite nell'obbedienza agli stereotipi del potere fallogocratico. Il fatto è che l'eredità che esse avevano a disposizione era ancora talmente povera che le giovani sono state lasciate sole con se stesse. Insomma l'elaborazione per una identità femminile va continuamente sollecitata a rischio della sua inevitabile perdita. Per questo è necessario partire dalle leggi. Il solo modo di superare i costumi e le tradizioni. Scrive Luce Irigaray in La democrazia inizia a due: 'La questione di sapere se l'appartenenza ad un genere sarebbe l'effetto di un destino biologico o di un condizionamento sociale non tiene conto del fatto che essere e divenire donna significa conquistare una dimensione civile adeguata all'identità femminile, una cultura corrispondente ad un corpo proprio ed a una genealogia specifica, una sua maniera di amare e generare, di desiderare e di pensare. Il vicolo più cieco del femminismo è spingere a decondizionarsi dalla loro identità femminile per raggiungere un universale unico da condividere in un mondo al maschile o al neutro. Ma l'orizzonte di una comunità neutra asessuata è inquietante. Oltre la difficoltà di amarsi al neutro, oltre i conflitti riguardanti chi ha più o meno di questo o di quella che vi si sviluppano con diverse modalità sadomasochistiche, una società al neutro dimentica il limite tra la vita e la morte. Se la vita, essa è sempre sessuata, la morte invece non manifesta più tale differenza. Una società che cancella il limite tra la vita e la morte è capace di tutti gli olocausti'. Insomma, la democrazia deve essere capace di articolare anche linguisticamente che la società è costituita da cittadini e cittadine, da persone che hanno una sessualità e non sono neutre e neanche astrazioni. Altrimenti dietro l'astrazione e il neutro troviamo nascosta la gabbia del linguaggio, i suoi stereotipi. Ma compiere questa trasformazione, secondo Luce, richiede di ripartire dal riposizionamento del diritto naturale e di quello positivo. Di ripensare tutti i codici giuridici, cioè: il Codice civile, la Costituzione, il Codice penale, la Carta dei diritti dell'uomo. Altrimenti il destino femminile è quello di rimanere schiave. Perché è schiavo o schiava chi non gode di diritti propri ed è sottomesso/a ai diritti di altri. Sottomesso/a, scrive Irigaray, ma altri è solo al maschile. Oggi è chiaro a tutti, credo, che il capro espiatorio è innocente in ordine alle accuse che gli vengono rivolte. Ricordate Girard? Bene, invece per quello che dice Luce Irigaray c'è ancora un chiasmo, un punto cieco. Che nessuna legge dà diritto ad esistere in quanto donna è per noi un dato invisibile. Un giorno, forse, tutti vedranno quanto questo fosse incivile. Chiuderei l'incontro con alcune citazioni. Innanzitutto Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano. Lacan, è vero, ha cacciato Luce, ma lei aveva studiato psicoanalisi con lui, lo considerava evidentemente un maestro. Come era Hegel per Marx, seppure gli scrive contro. Recalcati dice che la realtà per gli uomini e le donne è duplicata. C'è una immagine o rappresentazione della realtà legata agli stereotipi e ai modelli vigenti che mostra le cose in modo più o meno rassicurante. Quando accade qualcosa di traumatico tale velo si rompe e vediamo ciò che fino a quel momento era invisibile. Allora incontriamo la realtà: 'L' incontro con il reale è sempre l'incontro con un limite che ci scuote, con qualcosa che ci impedisce di continuare a dormire. L'apparizione di un nodulo che minaccia una malattia mortale, la perdita di un lavoro che mette a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia, l'insistenza sorda di un comportamento sintomatico che mi danneggia e che nessuna interpretazione riesce a far regredire; ma anche un nuovo amore, la nascita di un figlio, un'esperienza mistica, l'incontro con un opera d'arte, un'invenzione scientifica, una conquista collettiva. Tutto ciò che risveglia dal sonno della realtà è reale, compreso l'incubo di cui parla Freud. Si tratta di una forma radicale dell'inemendabile. Non posso sottrarmi alla morte, ma nemmeno agli effetti che su di me provoca la lettura perturbante di un libro o la visione di un film o di un quadro. Il reale è ciò da cui non si può fuggire.' (Quando 'La Realtà Anestetizza il Reale'. Massimo Recalcati. Repubblica 23/04/12. Sez. Cultura). In un certo senso ciò che non vediamo è ciò che è coperto dagli stereotipi. Ad esempio quelli che Luce Irigaray e altre autrici denunciano come fattori condizionanti l'esistenza delle donne fino a renderle schiave. Come è avvenuto per le streghe, un giorno vedremo chiaramente quale violenta falsificazione è in atto. Sotto tortura le streghe, gli stregoni erano una piccola minoranza, circa il dieci per cento, venivano appese ai polsi con le mani dietro la schiena, che è poi la tortura più praticata nei secoli, allora confessavano agli inquisitori le loro colpe. Oggi sappiamo che erano vittime degli uomini del tempo. I politici, i preti, i carnefici, gli inquisitori erano sempre e solo uomini. Nel film L'ultimo inquisitore Milos Forman fa vedere uno di questi tristi figuri appeso ai polsi che confessa qualunque colpa. Anche Jean Amery fu appeso dai suoi aguzzini quando lo interrogarono, lo racconta in Intellettuale ad Auschwitz. Dal suo racconto si capisce che il chiasmo, la cecità, è sempre conseguenza della mancanza di cultura. Infatti Jean Amery, filologo e filosofo, dice che la sua preparazione intellettuale era completamente inutile nel campo, non serviva a niente. Ad Auschwitz era meglio saper fare il manovale o ancora di più essere un delinquente. Possiamo allora dire che ogni volta viene meno la cultura il rischio è che vengono aperti i campi di concentramento. Come quelli nazisti. Campi che sono l'espressione della più estrema e performativa gabbia linguistica mai esistita. Allora la realtà inemendabile (la morte?) si fa più prossima. Leggendo gli interrogatori delle donne accusate di stregoneria si capisce che erano le uniche a conservare lucidità, almeno fintanto non venivano torturate, lo vedremo con Luisa Muraro. La gabbia del linguaggio è allora quel giogo e quel paraocchi da cui bisogna continuamente liberarsi. D'altronde l'unica chance che abbiamo per uscire dalla gabbia linguistica è la cultura. Quando gli stereotipi cadono di fronte a qualcosa di traumatico e doloroso accade che l'inemendabile entra nella nostra vita, allora ci interroghiamo, cerchiamo di comprendere, di aggiustare il tiro, di aggiustare il nostro modo di vedere le cose, il nostro modo di vivere, cerchiamo di rimettere nei cardini ciò che è fuori sesto. Il film di Milos Forman racconta la vita del Goya (1746 - 1828). Il pittore ha intitolato un'acquaforte Il sonno della ragione genera mostri. Mostri che sono intorno e dentro di noi, anche se non li vediamo. In particolare se la prerogativa del maschio bianco europeo (e non) è una ragione che ha la pretesa di essere sincronica al motore immobile attorno a cui ruota l'universo.


Franco Insalaco


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