Una piccola nota di benvenuto

Cosa è un Giardino Filosofico? L'abbiamo immaginato come un luogo di incontro tra amici, in cui la filosofia è a casa. E' un poco epicureo, non sale verso le meteore, scende in terra tra le persone, appunto, in un piccolo giardino, a fare filosofia dove normalmente viviamo. L'Inventificio Poetico è, ispirandosi a Pietro M. Toesca, lo spazio delle invenzioni, quelle che rendono sensato vivere. Per sapere che al mondo il bene supera il male basta dire che siamo ancora vivi, altrimenti non saremmo più qui. Insomma, cerchiamo di alimentare questa differenza, in ciò consiste l'utopia del Giardino Filosofico e Inventificio Poetico, il cui sottotitolo è: "Volgere liberi gli occhi altrove".


mercoledì 4 luglio 2012

Ricevo e pubblico questa lettera proetica, termine coniato dal poeta Emilio Rentocchini, scritta da Enrico Sesto, della redazione di éupolis, nel 2006 a Carlo Petrini, fondatore di Slow Food

Caro Carlo Petrini
ho appena finito di leggere il suo "Buono, Pulito, Giusto" e mi sento "felice", come quando uno mangia con "gusto" dopo tanto tempo a digerire il cibo meschino della solitudine e dell'insignificanza. Se posso permettermi di cavalcare ancora la metafora alimentare posso dire che, leggendola, ho mangiato bene, non solo perché ho letto un libro sul cibo ma perché ho letto un libro "nutriente", cioè un libro che si dà come cibo perché ha presente la problematica "alimentare" della sapienza nella complessità del metabolismo umano fra cielo e terra, fra alimento invisibile e alimento visibile, fra cibo immateriale e cibo materiale. 

E qui torno a quella sensazione di piacere che la lettura del libro mi ha dato, per cui posso dire di aver mangiato alla mensa della mente. Come quando, a tavola, senti salire il calore interno e la cerchia è stretta dagli anelli aurei della convivialità che, mentre ti radicano nel sapore della terra, ti elevano alla sapienza del cielo e, contemporaneamente, tutta la fisiologia segreta freme perché sente riaffiorare le ali della felicità, che dilatano la cerchia estatica in leggere onde luminose che partono dal corpo per convogliarci al viaggio immobile sulle ali del significante, che sa unire al di là di noi. 
Così dicendo non vorrei adesso esagerare a proposito di questo libro, consapevole come sono che dietro ogni entusiasmo alimentare c'è sempre una ferialità del cibo che, insistendo su una normalità malnutrita, gli dà sprone e valore. Ed oggi, purtroppo, la cattiva nutrizione è cosa di tutti i giorni e grande è il desiderio di festa, quando si spezza l'atomismo deprivante e ci si avvia nel grande circolo della comunicazione che riesce a vibrare toccando sia l'altezza che la profondità. 
Voglio infatti dire che questo libro ha per me un grande merito a doppia frequenza, da una parte investe energie intellettuali finalizzandole sul problema planetario del cibo, dall'altra, individua il problema del cibo come problema eminentemente culturale, per cui, lavorando ad una definizione dei principi di una nuova gastronomia, lavora anche alla individuazione di una nuova gastronomia dei principi. "Buono, Pulito, Giusto" non sono solo principi qualitativi della naturalità del sapore, ma anche archetipi celesti della culturalità del sapere, facendo così coincidere cielo e terra in un appropriato metabolismo cosmico capace di nutrire di un nuovo eros alimentare le nostre esistenze a lungo debilitate dalle diete della insignificanza dell'industria agroalimentare e culturale. Tutto quello che è successo sulla terra, con l'omologazione del cibo materiale, è successo anche in cielo con l'omologazione del cibo immateriale, perché ogni terra  ed ogni comunità insediata ha un suo cielo che è il suo mantello culturale e questo gli Antichi lo sapevano bene nell'elaborazione delle loro economie territoriali. La biodiversità terrestre ha il suo corrispettivo nella psicodiversità celeste, per cui non c'è sapore in terra senza sapere in cielo. Consapevolezza che si traduceva nell'eccezionalità del pasto rituale e dell'offerta dei cibi di eccellenza come riconoscenza e riconoscimento della funzione coproduttiva degli invisibili nella materialità del sorgere. 
Detto questo, l'importanza positiva di questo libro si evince proprio per contrasto con la realtà negativa del nostro tempo, caratterizzato da una grave crisi alimentare per cui la qualità industriale non ha qualità "ideale". Si produce, cioè, un cibo povero di idee che ci fa depressi culturalmente e senza forze per difendere la comunità, il suo cielo, la sua terra. Questo cibo mercantile, piuttosto, ci divide fra di noi,lanciandoci all'accaparramento privatistico della frigidità industriale, senza più quel calore artigianale dell'autoproduzione comunitaria, così dimenticando ogni valenza del cibo come bene comune, come idea comune, di fatto progressivamente lacerando tutti i sapienti tessuti secolari dell'intreccio rituale di verticali ed orizzontali.
Il cibo, ce per sua antica natura è stato sempre avvertito come mediazione, attualmente, invece di incollare la nostra costitutiva doppiezza umana fra cielo e terra, sempre più ci separa da noi stessi, avvelenando il nostro metabolismo con la delocalizzazione della nostra mente ideale dal nostro genio locale, così producendo nuove generazioni senza genialità. Ragion per cui, se la nostra altezza non corrisponde alla nostra profondità, non ci resta che la superficialità schizofrenica del nostro indaffarato transitare nei non luoghi della mercificazione alienata e non ci si pensa mai perché domani è un altro giorno senza destino, cioè senza memoria. Il libro, quindi, focalizzando l'attenzione sulla crisi alimentare, mette in evidenza anche la gravissima crisi culturale che stiamo attraversando, non nel senso di penuria industriale di questo particolare tipo di prodotti colti, quanto, piuttosto, perché non esiste comunità culturale che produce in loco l'immagine di sé. Costruire nuove comunità del cibo significa perciò anche costruire nuove comunità del culto, del colto, del cotto. Il veleno della velocità ha desacralizzato il cibo e il corpo, ha impoverito i sapori ma anche i saperi, espropriandoci delle nostre capacità di cucinare noi stessi nell'autorappresentazione colta/cotta delle nostre crudità naturali, per cui c'è consumo ma non c'è trasformazione, nel paradosso che il cibo viaggia miglia e miglia mentr ela nostra mete locale giace nella più immobile inedia. La crisi alimentare della globalizzazione è anche crisi intellettuale, all'espropriazione di luogo corrisponde anche l'espropriazione di tempo, non c'è tempo per pensare, non c'è tempo per cucinare. Siamo venduti e non possiamo riacquistarci perché non produciamo il giusto valore del nostro riscatto: la felicità.
Questo libro, attorno alla qualità alimentare, chiama perciò a raccolta non solo contadini, pescatori, artigiani, cuochi, ristoratori, ma anche noi intellettuali, artisti e poeti che, senza terra e senza cielo, senza comunità di destino, delocalizzati nella virtualità di nuovi territori mediatici, non sappiamo più pensare il nostro Genio locale, le nostre immagini territoriali, i nostri sacri archetipi passionali, schiacciati come siamo fra la resistenza utopica della fame e la forte tentazione di svendere tutto il mito al marketing territoriale. Noi stessi come pensatori siamo un cibo che nessuno mangia perché non dà da mangiare e così abbiamo visto estinguersi interi campi del sapere, intere coltivazioni, le più belle, le più lente, le più antiche, assieme ai racconti della comunità fantastica che narravano dell'intreccio  inestricabile di natura, uomini e dei.
Il libro è ben consapevole di questo e, nella seconda parte, infatti lancia questa idea della rete dei nuovi gastronomi come grande archivio dei saperi tradizionali e di tutte quelle espressioni culturali che costituiscono il contorno intelligente della bellezza del cibo, nella consapevolezza che salvare la qualità del cibo significa anche salvaguardare la mitologia, per cui la comunità del cibo è anche una comunità del cibo fantastico, perché comunità del piacere e della felicità, ma anche, per quanto ci riguarda, del dolore e del pianto per l'estinto che motiva il moto di resistenza assimilandone l'utopia. Ma c'è di più, sembra che questo libro, il suo pieno scorrere corposo, sia propriamente nato alla confluenza dei due regni, da una parte il canto indigeno di Terra Madre, dall'altra l'intelligenza organizzata di Scienze Gastronomiche, affinché l'estinto, la sua lezione, possa tornare a fare scuola attorno alla rigenerazione dell'antico, cosi preoccupandosi, in un sol colpo di maestria alchemica, non solo della fecondità naturale dei suoli, ma anche della creatività della mente locale, per pervenire all'obiettivo dinamico di ogni vera tradizione utopica: poter rinascere dalle proprie ceneri.
La ringrazio caro Petrini e ringrazio anche tutti i coproduttori visibili ed invisibili di questo bel libro per averci così ben cotti. Porterò ad altri la buona novella:"Chi semina utopia raccoglie realtà".


Siracusa 18/02/06                                         Enrico Sesto
                                                                            Socio Slow

  

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